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R Recensione

7/10

Limp Bizkit

Three Dollar Bill, Yall$

I Limp Bizkit sono forse il gruppo nu metal più odiato di sempre. Sembra che sia sufficiente dare un’occhiata alla faccia di Fred Durst, frontman tatuato forse in sovrappeso, a quella sua aria da disadattato che chissà perché è perennemente arrabbiato col mondo, o al suo disprezzabile cappellino. O al suo chitarrista Wes Borland, truccato bianco e nero come un patetico adolescente fan dei Kiss alla ricerca di un’identità. Gli altri due invece non paiono avere proprio nulla di male, ma che importa, fanno parte del gruppo anche loro, sono “complici del misfatto”. Basta guardarli giusto un paio di secondi, e già non possono non starti sulle palle. Sono spesso considerati la degenerazione del nu metal, insulsi casinisti che mai nulla hanno avuto da dire in campo musicale né mai ce l’avranno.

Se però si mettessero un attimo da parte pregiudizi di questo tipo e ci si focalizzasse soltanto sulla loro musica degli inizi, ci si potrebbe rendere conto anche dei loro meriti, non poi così insignificanti. I Limp Bizkit hanno infatti riempito un vuoto nel movimento nu metal e nel crossover del periodo, portando nei fatti a termine la “missione musicale” principiata dai Rage Against The Machine: unire la rabbia del metal allo stile hip hop.

Ora, sicuramente i RATM sono i primi ad aver tentato questa fusione stilistica, con ottimi risultati si intende. Tuttavia non l’hanno compiuta, i loro riffs erano più hard rock alla Led Zeppelin che heavy metal, ma soprattutto non hanno mai usufruito di un DJ professionista. Tutto questo invece i Limp Bizkit ce l’hanno, poiché la loro chitarra è talvolta distorta a livelli mostruosi, e poi, soprattutto, possono vantare in formazione un DJ competente come DJ Lethal. Si potrebbe semplicisticamente affermare che nella band Borland, Rivers (basso) e Otto (batteria) sono la parte nu metal, mentre Durst e DJ Lethal sono quella hip hop.

La beffarda “Intro” introduce appunto la prima canzone vera e propria, “Pollution”, brano che nonostante l’apertura à la Orange 9mm già propone compiuta questa fusione hip hop / metal, un episodio di violenza selvaggia che resta fra i più rappresentativi della band. Tuttavia è “Counterfeit” il brano davvero epocale (per il genere), che è anche il loro capolavoro: crescendo magistrale, base di un’intensità spaventosa, linee strumentali eccellenti, superba interpretazione di Fred, carica di disagio e frustrazione. La formula del brano è così vincente che potrebbe essere considerata la “Future Breed Machine” del nu metal.

A seguire altri due psicodrammi davvero convincenti, “Stuck” e Nobody Loves Me”, altre terrificanti scariche di adrenalina che non temono la concorrenza con le migliori sceneggiate dei Korn. E, a parere di chi scrive, rivaleggiare con pezzi come “Faget” o “Ball Tongue” è un’impresa non ardua, di più: se nemmeno i Limp Bizkit non ci arrivano, probabilmente è solo colpa del confronto con lo stile vocale da incubo di Jonathan Davis, ma certo non per i brani in sé. La band riesce a confezionare brani di una schizofrenia spaventosa mantenendo comunque una compostezza di fondo (ad eccezione di Fred Durst ovviamente, quello pare sempre un inguaribile pazzo furioso), mostrando di aver ben assimilato la lezione dei RATM e dei Korn. La più psichedelica “Sour” è una piacevole pausa dopo questi piccoli cataclismi urbani.

Giunti a “Stalemate” si ha un’ulteriore conferma della buona impressione che ci si è fatta del gruppo finora, un flusso di coscienza musicale d’intensità variabile che vede la band un po’ più ambiziosa. Le nevrosi di Durst dominano l’album dall’inizio alla fine; non ha il timbro unico di De La Rocha, non ha le capacità vocali di Jonathan Davis o di Chino Moreno, il suo modo di sfogare la sua rabbia repressa colpisce a fondo come gli altri grandi vocalist del movimento nu metal.

I brani seguenti non sono esattamente da considerare riempitivi, semplicemente rimestano le idee con qualche variazione. Così “Clunk” è una “Stalemate” meno potente, “Faith” è una cover di George Michael che degenera nella loro violenza più barbara, “Stink Finger” l’ennesimo assalto assieme a “Leech” che sembra una cover di “7 Words” (Deftones). “Indigo Flow” al confronto è quasi commovente, un monologo col sapore di una confessione che esplode dopo un disperato “I love you!”, anche se a questo punto si poteva benissimo attenersi a lidi più intimisti: di botti se ne sono sentiti abbastanza, no?

In conclusione troviamo i sedici minuti di “Everything”, un sogno-incubo fatto a seguito di un’overdose di chissà che sostanze, una jam session che non farebbe troppa fatica a comparire fra le pagine di rock psichedelico del periodo. Non fosse altro che l’improvvisazione viene troncata da un rapidissimo fade-out, una maniera davvero magistrale per rovinare completamente tutto quanto. Ancora oggi i fan si chiedono perché diavolo non abbiano riflettuto un minimo per imbastire un discreto finale, e sì che di possibilità ne avevano tante: la band poteva smettere di suonare uno strumento alla volta, o il cantante poteva pronunciare una frase ad effetto, o ancora tutto poteva venire inghiottito da un buco nero che non lasciava scampo a una nota. Un’occasione stupidamente sprecata.

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C Commenti

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Utente non più registrat, autore, alle 8:56 del 20 novembre 2018 ha scritto:

Scusate se ci ho messo così tanto a pubblicare la nuova recensione, magari potrei mettermi a scriverne una al mese. Comunque mi riservo il piacere (?) di scrivere anche di Significant Other

zagor (ha votato 6,5 questo disco) alle 9:29 del 20 novembre 2018 ha scritto:

Durst era un abile chef che ha mischiato un po' di stilemi del c.d. crossover anni 90 ( I RATM citati, peraltro di un altro pianeta; i Primus per il basso gommosso e schizofrenico, si ascolti "pollution"; i Faith No More per le coloriture d'organo in "Counterfeit"; i Red Hot Chili Peppers un po' ovunque) con le nuove istanze nu metal, segnatemente del suo padrino Jonathan Davis. Il risultato non fu disprezzabile, peccato che coi dischi successivi banalizzarono sempre piu' questa formula, asfaltando la strada per i vari Linking Park e compagnia. Bella recensione.

Utente non più registrat, autore, alle 9:46 del 20 novembre 2018 ha scritto:

Grazie mille per il complimento. Lungi da me affermare che i Limp Bizkit musicalmente sono importanti come i Rage Against The Machine, però mi pare doveroso sottolineare appunto questo loro merito, che molti colpevolmente dimenticano. È vero che la loro musica gronda di citazioni, ma d'altronde anche quella dei RATM grondava citazioni da tutte le parti: perlopiù era la fusione ad essere originale, non i singoli ingredienti in sé. Comunque, il 6,5 è un voto più che valido, io ho dato 7 perché Counterfeit, Stuck, Nobody Loves Me e Stalemate sono delle perle per tutto il genere nu-metal. Senza contare che la cover di Faith fantastica

zagor (ha votato 6,5 questo disco) alle 15:10 del 20 novembre 2018 ha scritto:

diciamo che c'era un po' differenza anche nei testi, impegnati e densi di tensione civile e lirica quelli dei RATM, votati al puro cazzeggio da bianco teenager americano ( vedi "nookie", notevole elogio della fica lol) quelli del biscotto moscio, nome che peraltro a chissà cosa allude.

Utente non più registrat, autore, alle 9:59 del 20 novembre 2018 ha scritto:

Aggiungo che i Linkin Park avevano un talento melodico che i Limp Bizkit hanno mai avuto, oltre che un vocalist competente com'era Chester Bennington. Ecco perché quando i Limp Bizkit perderanno serietà e rabbia, avvalendosi solo di (scadenti) linee melodiche, moriranno artisticamente. Perché i Linkin Park non fecero mai un album davvero valido, ma nei momenti migliori misero in mostra un gusto melodico (Crawling, In The End) che i Limp Bizkit non potevano mostrare

zagor (ha votato 6,5 questo disco) alle 15:08 del 20 novembre 2018 ha scritto:

magari invece che su "significant other" scrivi qualcosa proprio su "Hybrid theory", che alla fine resta uno dei dischi piu' venduti e popolari di quegli anni. i LP erano proprio il prototipo della boy band per chitarre come si diceva allora, indubbiamente scrivevano melodie catchy su cui ci mettevano chitarroni e parti hip hop prevedibili come una puntata di "Un posto al sole", per questo hanno venduto cosi tanto.

fabfabfab alle 14:37 del 4 gennaio 2019 ha scritto:

Ben fatta questa recensione.

Utente non più registrat, autore, alle 21:11 del 4 gennaio 2019 ha scritto:

Gentilissimo, ma dovrò impegnarmi un po' di più. Ogni tanto sbaglio qualche frase