Limp Bizkit
Three Dollar Bill, Yall$
I Limp Bizkit sono forse il gruppo nu metal più odiato di sempre. Sembra che sia sufficiente dare unocchiata alla faccia di Fred Durst, frontman tatuato forse in sovrappeso, a quella sua aria da disadattato che chissà perché è perennemente arrabbiato col mondo, o al suo disprezzabile cappellino. O al suo chitarrista Wes Borland, truccato bianco e nero come un patetico adolescente fan dei Kiss alla ricerca di unidentità. Gli altri due invece non paiono avere proprio nulla di male, ma che importa, fanno parte del gruppo anche loro, sono complici del misfatto. Basta guardarli giusto un paio di secondi, e già non possono non starti sulle palle. Sono spesso considerati la degenerazione del nu metal, insulsi casinisti che mai nulla hanno avuto da dire in campo musicale né mai ce lavranno.
Se però si mettessero un attimo da parte pregiudizi di questo tipo e ci si focalizzasse soltanto sulla loro musica degli inizi, ci si potrebbe rendere conto anche dei loro meriti, non poi così insignificanti. I Limp Bizkit hanno infatti riempito un vuoto nel movimento nu metal e nel crossover del periodo, portando nei fatti a termine la missione musicale principiata dai Rage Against The Machine: unire la rabbia del metal allo stile hip hop.
Ora, sicuramente i RATM sono i primi ad aver tentato questa fusione stilistica, con ottimi risultati si intende. Tuttavia non lhanno compiuta, i loro riffs erano più hard rock alla Led Zeppelin che heavy metal, ma soprattutto non hanno mai usufruito di un DJ professionista. Tutto questo invece i Limp Bizkit ce lhanno, poiché la loro chitarra è talvolta distorta a livelli mostruosi, e poi, soprattutto, possono vantare in formazione un DJ competente come DJ Lethal. Si potrebbe semplicisticamente affermare che nella band Borland, Rivers (basso) e Otto (batteria) sono la parte nu metal, mentre Durst e DJ Lethal sono quella hip hop.
La beffarda Intro introduce appunto la prima canzone vera e propria, Pollution, brano che nonostante lapertura à la Orange 9mm già propone compiuta questa fusione hip hop / metal, un episodio di violenza selvaggia che resta fra i più rappresentativi della band. Tuttavia è Counterfeit il brano davvero epocale (per il genere), che è anche il loro capolavoro: crescendo magistrale, base di unintensità spaventosa, linee strumentali eccellenti, superba interpretazione di Fred, carica di disagio e frustrazione. La formula del brano è così vincente che potrebbe essere considerata la Future Breed Machine del nu metal.
A seguire altri due psicodrammi davvero convincenti, Stuck e Nobody Loves Me, altre terrificanti scariche di adrenalina che non temono la concorrenza con le migliori sceneggiate dei Korn. E, a parere di chi scrive, rivaleggiare con pezzi come Faget o Ball Tongue è unimpresa non ardua, di più: se nemmeno i Limp Bizkit non ci arrivano, probabilmente è solo colpa del confronto con lo stile vocale da incubo di Jonathan Davis, ma certo non per i brani in sé. La band riesce a confezionare brani di una schizofrenia spaventosa mantenendo comunque una compostezza di fondo (ad eccezione di Fred Durst ovviamente, quello pare sempre un inguaribile pazzo furioso), mostrando di aver ben assimilato la lezione dei RATM e dei Korn. La più psichedelica Sour è una piacevole pausa dopo questi piccoli cataclismi urbani.
Giunti a Stalemate si ha unulteriore conferma della buona impressione che ci si è fatta del gruppo finora, un flusso di coscienza musicale dintensità variabile che vede la band un po più ambiziosa. Le nevrosi di Durst dominano lalbum dallinizio alla fine; non ha il timbro unico di De La Rocha, non ha le capacità vocali di Jonathan Davis o di Chino Moreno, il suo modo di sfogare la sua rabbia repressa colpisce a fondo come gli altri grandi vocalist del movimento nu metal.
I brani seguenti non sono esattamente da considerare riempitivi, semplicemente rimestano le idee con qualche variazione. Così Clunk è una Stalemate meno potente, Faith è una cover di George Michael che degenera nella loro violenza più barbara, Stink Finger lennesimo assalto assieme a Leech che sembra una cover di 7 Words (Deftones). Indigo Flow al confronto è quasi commovente, un monologo col sapore di una confessione che esplode dopo un disperato I love you!, anche se a questo punto si poteva benissimo attenersi a lidi più intimisti: di botti se ne sono sentiti abbastanza, no?
In conclusione troviamo i sedici minuti di Everything, un sogno-incubo fatto a seguito di unoverdose di chissà che sostanze, una jam session che non farebbe troppa fatica a comparire fra le pagine di rock psichedelico del periodo. Non fosse altro che limprovvisazione viene troncata da un rapidissimo fade-out, una maniera davvero magistrale per rovinare completamente tutto quanto. Ancora oggi i fan si chiedono perché diavolo non abbiano riflettuto un minimo per imbastire un discreto finale, e sì che di possibilità ne avevano tante: la band poteva smettere di suonare uno strumento alla volta, o il cantante poteva pronunciare una frase ad effetto, o ancora tutto poteva venire inghiottito da un buco nero che non lasciava scampo a una nota. Unoccasione stupidamente sprecata.
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