Poppy
I Disagree
Moriah è una graziosa brunetta di Boston, 18 anni appena ed un grande sogno: diventare unaffermata popstar. Per affacciarsi sul mondo dello spettacolo Moriah si trasferisce a Los Angeles, ma nel processo qualcosa va storto: Moriah non sa che quella che voleva e doveva essere la Lady Gaga della generazione Z diventerà invece il perfetto monumento flesh and blood delluncanny valley, un biondo umanoide dalla vocina sottile e bambinesca, privo di qualsiasi emozione e prestato a videosketch genuinamente disturbanti ripetizioni compulsive di ununica sequenza di parole, interviste a piante, degustazioni out of sync di zucchero filato, dissertazioni sulla gravità, sdoppiamenti żuławskiani Nel momento in cui Moriah diventa Poppy, un riflesso: un bug nella programmazione. Poppy esce da YouTube, comincia a intonare le sue canzoncine: un ricordo di Moriah, forse, o un indizio sulla crepa che verrà, sul fallimento censorio del post-moderno. Un poco alla volta la compostezza robotica sincrina, le levigature radiofoniche si corrugano: qualcuno sussurra allorecchio di Poppy che camminare sulle proprie gambe non è affatto male. Am I A Girl?, comincia a chiedersi Poppy: o forse Moriah? Un Jekyll-Hyde che compare e scompare a comando nella calcolata schizofrenia del singolo spartiacque, X. Forse gli androidi non sognano pecore elettriche, ma di autoanalisi qualcosa ne devono capire: e I Disagree, capitolo che chiude la prima trilogia lunga della people Poppy, ne è il perfetto esempio.
Elogiando il dono della sintesi, questo è quanto si osserva da fuori: tra le frequenze educate di una radio esplicitamente pop-oriented (nucleo Eighties, sporadici sobbalzi hip hop, sgocciolamenti trap) irrompono interferenze distorte tra groove e nu metal, piovono calcinacci industrial, si insinuano breakdown densi e pesanti come buchi neri supermassicci. La crisi del post-genere, come viene definita dalla stessa Poppy (co-autrice di tutti i brani assieme agli strumentisti Chris Greatti e Zakk Cervini e allo storico produttore Titanic Sinclair, da cui si è di recente burrascosamente separata). La dichiarazione ha un suo senso, perché, sebbene la scrittura complessiva non brilli per originalità né per eterogeneità, in più di un frangente leffetto confusionario di randomica sovrapposizione stilistica che ancora trasudava da alcuni singoli recenti (la già citata X, il patchwork sconclusionato di Scary Mask) viene risolto a favore di un tutto unico, coerente: così il sinistro ritornello della title track (Down / Let it all burn down / Burn it to the ground / Well be safe and sound / When it all burns down) si incastona bene in una cornice di chitarre deftonesiane e rimbombi trap; le storture distoniche che proliferano allimpazzata dal rifferama mansoniano di Fill The Crown (You can be anyone you want to be / You can be free, you can be free) si pongono in diretta linea evolutiva con i layer wave della melodia principale; sospesa messianicamente in un vuoto artificiale, Bite Your Teeth deraglia tra svirgolate thrash e colpi alla cintola deathcore. Naturalmente si sbraca ancora (Concrete sballotta un demenziale refrain kawaii à la Babymetal tra presse djent, deviazioni folkish e pop rock primi 2000: Sit / Stay sembrano i Berlin che abbiano buttato un orecchio ai Tony Danza Tapdance Extravaganza), preferendo a tratti una piacevole comfort zone poco in tono con la narrazione prometeica interna al disco (Sick Of The Sun) o, al contrario, eccedendo nelle ambizioni simboliche (ma molto belli sono i suoni negli stacchi luciferini di BLOODMONEY, bassi scarnificati e lamiere che si contorcono): comunque bazzecole, in confronto al fresco passato.
La domanda che ci si pone, esaurito lascolto, è la seguente: abbiamo assistito ad un raffinato esercizio di autoironia, alla resurrezione della fu Moriah o allepisodio più raffinato e polifonico del brand promozionale Poppy? Bravo è chi suppone di avere la risposta. Noi non labbiamo.
Tweet