Big Ups
Before A Million Universes
Nella recensione di Eighteen Hours Of Static (2014) parlavamo, generalmente, di post-core della generazione Facebook. Con luscita, oggi, di Before A Million Universes possiamo arrivare a circoscrivere il discorso con maggiore efficacia: daltronde, la piattaforma di Mark Zuckerberg si è ulteriormente evoluta. Ora, ai contenuti degli utenti, si può non solo piazzare o meno un like, ma anche esprimere stati danimo apparentemente più variegati. Un vostro contatto ha pubblicato, per lennesima volta, la raccolta firme di Avaaz per far terminare il festival di Yù Lín? Voi cliccate sulla faccina triste. Avete appena visto uno spassosissimo video in cui un pellicano si pappa un piccione? Faccina che ride a crepapelle. Tuttiicriminidegliimmigrati.com vi dice che nel tal paesino del Bellunese unorda di selvaggi congolesi ha ucciso a cinghiate Fabio De Min e ha instaurato la sharīʿa? Faccina rossa di rabbia, incazzata. Ecco che Facebook, da contenitore di tutto un po, diviene un termometro di umori a trecentosessanta gradi, roba da far ammattire i padri della sociologia.
Con la musica dei Big Ups, in fondo, è lo stesso. Ogni cadenza ritmica, ogni riff di chitarra, ogni modulazione vocale (invero poche) sembrano meticolosamente studiate a tavolino per innescare, nellascoltatore, una data reazione. La superficialità pigliatutto dellesordio è stata rimpiazzata, per il second act, da un eclettismo che vuole farsi profondo, ma che non riesce a non suonare profondamente insincero. È questa la differenza sostanziale che scava un solco incolmabile tra i grandi classici degli anni 90 e le pallide, modeste repliche che passa oggi il convento. Persino nei dischi più manifestamente sottotono (attenzione, non abbiamo detto brutti), gruppi come Unsane o Jesus Lizard grondavano di disperazione, teatralità, autocommiserazione, sangue e sudore. Qui, al contrario, ci si mette in posa e ci si immortala compulsivamente nel farlo. Se Eighteen Hours Of Static era una guide for beginners, Before A Million Universes è un calendario di diapositive autoreferenziali, ricolme di unestetica voyeuristica alquanto irritante. Vero: scorre a fiumi il veleno nello scalcinato noise-core di Contain Myself, una serpe che sguscia inviperita da un ipnotico scheletro di armonici (diamo a Cesare quel che è di Cesare: una grande apertura) e Feather Of Yes, anche se assomiglia ad un perfetto incrocio genetico fra Slint e Shellac, funziona a dovere. Poi, però, si susseguono lestenuante gioco al rimpiattino di Meet Where We Are (inutile il monocromo spasmo muscolare della seconda metà: cinque minuti e mezzo sono troppi), una Negative splittata in due (discreta, tesa introduzione minimal-emo, incolore prosieguo à la Unwound), il basso tracimante di Capitalized a tirare le fila di un breve atto isterico ricostruito in laboratorio, una Knight irrisolta (dove fuzz e dissonanze intervengono a martello su uno scheletrico punk che sembra uscito dai My Disco), il pauperismo yin/yang di So Much You e il prescindibile autismo conclusivo di Yawp (un unico lamento tirato per i capelli e frammisto a sprazzi di wannabe vaudeville).
Si rimane, nientemeno, con un pugno di mosche in mano. Difatti in giro tutti stravedono per loro: miracoli dellera digitale.
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