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R Recensione

6/10

Big Ups

Eighteen Hours Of Static

Il post-core della generazione Facebook non poteva che essere, lucido nel suo inquadramento, essenziale nella sua manifestazione, un bignami dei grandi maestri. Egualmente, versi esistenziali come “I can’t remember what happened yesterday, the day before, anything, in any way / I think what I’m trying to say is: I don’t want to live a life like this” (in “Goes Black”: roba da far impallidire un Kinsella o un Pajo qualsiasi) sono solo una copia impegnata del degrado generalista di “I leave my home, I leave for a couple weeks / I leave my home, I leave it in the care of a friend / And in my basement, I found rainin' piss / And in my kitchen, I found my friend deceased” (rebus facile facile da decrittare), ma si imprimeranno altrettanto bene, se non meglio, nella mente di chi, per motivi anagrafici, non è mai riuscito a cavalcare l’onda lunga di quella stagione. I Big Ups, più efficaci dei Cloud Nothing, decisamente meno parodizzabili dei Touché Amoré, lontani dalla nevrastenia zappiana dei Blood Brothers e dalle cannonate dei Pissed Jeans, mettono ogni cosa al suo posto: e, nel rischio concreto di canonizzarle (--> banalizzarle --> depauperarle), riescono però a condensare le mille sfaccettature inventive di quello spirito proteiforme, magmatico, indomabile che fu il rock rumoroso di due decenni orsono.

Si apre (di)storti, pencolanti, in una lunga introduzione strumentale tagliata sul filo del rasoio (sottilmente slintiano) che da sola si divora più di metà di “Body Parts”, screamo prospetticamente deformato dai bassi e inquinato da interferenze noise. È un segnale, esplicativo, dell’aria che tira. Da lì in avanti, il bersaglio viene crivellato di colpi: la sopraccitata “Goes Black” è un apocrifo Shellac che si barcamena tra spoken word e sussultorei rilanci hardcore, “Grin” polverizza le acidità di un narcolettico bordone chitarristico in uno schizofrenico turbine funky-math (qui la voce sembra non tenere), “Atheist Self-Help” si gioca la carta della caciara beach punk tre-accordi-e-via, la metallica “TMI” scopre le gengive dei Barkmarket bastonate a sangue dagli Unsane, gli Heavy Vegetable ricorsivi fanno capolino sullo scoppiettante finale di “Fine Line”, “Disposer” è sincopata come gli Snot dei tempi che furono, le geometriche asprezze della sezione ritmica si stemperano nella perfetta chitarra chicagoana – chiaroscurale, pizzicata, minimale – di “Wool”. E così via, sino al compimento dei ventisette minuti d’archivio.

Certo, viene difficile entusiasmarsi o, peggio ancora, emozionarsi per quello che – mutatis mutandis – è crasso revival for dummies. Ma la divulgazione, se propedeutica, male non ha mai fatto.

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