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R Recensione

6/10

Big Ups

Two Parts Together

Quando ancora i dischi si vendevano e la critica specializzata aveva senso di esistere, il traguardo del terzo lavoro lungo in studio – spesso tagliato in non più di un paio d’anni – era ritenuto sufficiente per tirare le prime somme, stilare i primi bilanci. Si chiudeva una fase, se ne apriva un’altra. I migliori rimanevano a galla e si rinnovavano, gli altri si fermavano e ricominciavano da capo. Difficile capire e giustificare certe logiche oggi, dove tutto è dovuto e nulla si deve: dove scrivere, suonare e produrre un disco costa la metà di una cena di pesce tra amici; dove dilettantismo e bulimia (che, attenzione, sono ben altra cosa dal genuino diy) hanno divelto e soppiantato ogni affidabile discrimine estetico. Ma è proprio perché certe cose contano, tutto sommato, che vale la pena recuperarle, infondere in loro nuova vita. E dunque, quattro anni dopo il celebrato esordio “Eighteen Hours Of Static”, che parole spendere per la parabola dei Big Ups, arrivati al terzo autografo con “Two Parts Together”?

Una breve premessa è qui d’obbligo. A differenza dei giudizi spesso aspri espressi su queste pagine, a lungo il quartetto di New York è stato ritenuto il baluardo del “nuovo” post-core, l’autorevole e profetica – benché frammentata – genia novantiana di una generazione pron(t)a a collezionare etichette musicali come fossero capi di vestiario. Vai a capire cosa può scatenare la madeleine di una progressione slintiana, di una distorsione à la Shellac… Qualcosa di impalpabile nell’incantesimo, non casualmente, pare essersi infranto solamente con “Two Parts Together” che, se da un lato è sembrato statico e non particolarmente ispirato al solito iperattivo Anthony Fantano, dall’altro segna in verità una transizione – minima, ma ben percepibile – verso un suono più rotondo, orchestrale ed eclettico (parziale eccezione, una “Tell Them” vecchio stampo, priva di ogni sovrastruttura).

Già nelle intenzioni, tuttavia, si nasconde la trappola, sempre la solita, che tarpa le ali al risultato finale: un colossale debito di trasparenza verso l’ascoltatore. In “Trying To Love”, per citare l’esempio più appariscente, il basso di Carlos Salguero dipinge cinetici paesaggi new wave, contro la chitarra minimal-dissonante a due note di Amar Lal e l’apatico biascicare a due voci di Brendan Finn ed Elana Ehrenberg: arriva poi il ritornello, in cui l’elettricità rappresa viene convogliata in una magnetica serpentina chiaroscurale. Il pezzo funzionerebbe a meraviglia già così, ma in coda vi vengono appiccicati degli intimi paralipomeni slowcore di nessuna utilità pratica. Peculiare l’evoluzione di “Fear”, in cui lo spoken word scheletrico e reediano delle strofe viene rimpallato da un guitar work indie-core semplice ma efficace: ancora una volta, però, gli ultimi quaranta secondi vanno ad una sonatina industriale in backwards senza alcun contatto col corpo principale. “Imaginary Dog Walker”, nel suo informale andirivieni di pieni e vuoti, è già più classica, e il sottile arrangiamento d’archi che la ricopre non invadente: quanto all’indolenza della title track, scrollata di dosso in un rabbioso ritornello annunciato da una tonitruante epigrafe à la Big Black, fa il pari con la “Contain Myself” del precedente “Before A Million Universes” e si oppone con discreta efficacia alle decelerazioni emo-math dell’infinito refrain spezzettato della successiva “In The Shade”.

Le canzoni vanno e vengono: la filosofia che le anima no. Per quante variazioni possano essere perseguite, ciò che serve davvero ai Big Ups è un approccio diverso, meno condizionato, alla loro musica. Che è buona in alcuni casi, mediocre in molti altri, ma pur sempre, radicalmente insincera.

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