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R Recensione

6,5/10

Buñuel

A Resting Place For Strangers

Oggi, signori, si parla di effectiveness, intesa come capacità di comunicare a tutto tondo (perfetta formulazione --> perfetta comprensione --> perfetto sottotesto) un qualsiasi messaggio semiotico. Si parta, allora, dalla metafora: l’arte del veicolare l’ignoto attraverso il noto, di giustapporre piani semantici, del travalicare i confini della realtà fattuale contrapponendole un’altra realtà, verbale. Tanto migliore ed ardita la metafora, tanto più effective ciò che porta in seno. In questa prospettiva, Buñuel è ben più che rimando per compilatori compulsivi e cinefili d’antan: è l’incarnazione stessa dello squarcio, dell’“oltre”. Ci si sposta dall’occhio all’orecchio, ma il tranello è sempre in agguato: vietato commettere l’errore di bypassare dettagli apparentemente decorativi, poco appariscenti.

Vediamole, allora, queste finte minuzie. Le basi strumentali di “A Resting Place For Strangers”, su cui Eugene Robinson (Oxbow) appone in seguito, oltreoceano, il suo inconfondibile marchio di fabbrica, nascono in tre giorni di intensa osmosi tra il basso di Pierpaolo Capovilla (Il Teatro Degli Orrori, One Dimensional Man), il drum kit di Francesco Valente (Il Teatro Degli Orrori, Lume) e, naturalmente, la chitarra del luciferino Xabier Iriondo (Afterhours, Todo Modo, Cagna Schiumante, The Shipwreck Bag Show, A Short Apnea, Oleo Strut et caetera). Per disciplina, potenza, coesione e concisione, un supergruppo di tal fatta avrebbe potuto aspirare, negli anni ’90, ad entrare nel catalogo della Touch And Go, senza che nessuno potesse opporre niente di convincente. Gli ingredienti ci sono tutti: disagio esistenziale, cannonate soniche, pulsazioni scartavetranti, cazzotti sulle gengive che metà basta… Al che il lettore attento ed intelligente si chiederà: čto novogo? In Italia, seppure ad ondate alterne (con la felice, recente ed ahi così lontana alta marea del Canalese), si è sempre suonato così, glancing over other backyards. “This Is Love”, ad esempio, coniuga essenzialità e ferinità, entrambe spinte ai massimi livelli: tre minuti di bava alla bocca e dementi bordate industriali à la Big Black da perderci la testa. Ma quale l’elemento realmente chiave, quale l’apriscatole?

Ripercorrendo avanti ed indietro la scaletta del disco ci si accorge, infine, di stare camminando sulle macerie. Tutto è rovina, disfacimento, frammentazione. Non v’è nulla dell’epica fiera, gagliarda ed introspettiva di Cuneo (solo la cangiante geremiade di “Streetlamp Cold” potrebbe costituire il debole anello di congiunzioni tra correnti), nulla della naiveté torinese. Nulla da erigere, da costruire, da motivare. “A Resting Place For Strangers” è un cimitero di frequenze e simulacri di suoni, più che di suoni stessi: è il post-core che maledice sé stesso, spingendosi nella tomba. Se la sezione ritmica, affilatissima benché un filo troppo bombastica, affonda colpo su colpo con ferocia crescente (“I, Electrician” è una terrificante sciabolata noise, “Whipsaw” la ribollente bolgia dei dannati), sono Robinson ed Iriondo i veri fenomeni della situazione. Del primo, ogni anno che passa, si può sottolineare il carattere di performer a tutto tondo, di istrionico attore teatrale prestato alle distorsioni. Nel pesante sbattere di piedi di “Smiling Faces Of Children” (gli Shellac più concentrati e minimali) si risentono tutte le isterie, i singulti, i pereživanija stanislavskijani di dischi come “The Left Hand Path” e “Last Of The Dead Hot Lovers”: la nudissima “Cold Or Hot”, poi, strategicamente posta in apertura di scaletta, è quasi interamente una creatura – deforme, in apnea – di Eugene, che bercia e si lamenta su sottili landscapes rumoristici. Ed ecco che – metafora delle metafore! – entra in gioco Iriondo: è il suo stile frammentato ed assolutamente non convenzionale alla sei corde che permette al disco di smarcarsi da moltissimi stereotipi. Di volta in volta sega circolare (“This Is Love”), sbuffo di pressa (“I, Electrician”), macchina automatica di jingle catramosi (sontuosa la prova su “Jesus With A Cock”), mola cripto-sludge (“Dump Truck”) e sinuosi ancheggiamenti à la Denison (“Me + I”: alla voce si alternano Capovilla e Kasia Meow), la chitarra, da sola, parodia e sbugiarda vent’anni di discutibili strumentisti tutta tecnica e niente sostanza.

A Resting Place For Strangers” è stato presentato, lo scorso febbraio, in un brevissimo ed estenuante tour italiano di due settimane. L’augurio dell’ascoltatore (o maledizione bianca, che dir si voglia) è che la band sia letteralmente costretta, in un futuro quanto mai prossimo, a rimbracciare gli strumenti, in una naturale estensione della prima tornata (con i Winstons di Gabrielli, Gitto e Dell’Era ha funzionato: sai mai che…).

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Utente non più registrato alle 13:26 del 4 aprile 2016 ha scritto:

Bel dischetto...quello degli Winstons

Marco_Biasio, autore, alle 15:01 del 4 aprile 2016 ha scritto:

Anche a me è piaciuto molto. Appena ho un attimo scrivo due righe.