V Video

R Recensione

6,5/10

Converge

The Dusk In Us

La ragione storica di costituzione ed esistenza della band lo faceva presagire, alcune avvisaglie degli ultimi dischi – specialmente “Axe To Fall” (2009) e il fortunato “All We Love We Leave Behind” (2012) – cominciavano a giocare a carte scoperte. Oggi, con il nono e attesissimo full lengthThe Dusk In Us”, i Converge staccano definitivamente il ticket della maturità artistica e si apprestano a diventare ciò che, in nuce, è la possibile proiezione di qualsiasi giovane (e indiavolato) gruppo hardcore: un monumento di esistenzialismo post-core pervicacemente attaccato alle proprie origini, un concilio di giovani vecchi saggi chiamato a mediare (attenzione: non a rinnegare) l’incontenibile irruenza dei primi passi con la profondità di pensiero (o almeno si spera) dell’età adulta. Che tra il bianco e il nero – luoghi comuni a parte – si interpongano infinite sfumature di grigio è un dato di fatto testimoniato anche dall’importante cover: le vestigia di un impero che esibisce tutta la sua statica decadenza.

Mai come in quest’occasione, stando a quanto detto, i testi di Jacob Bannon ricoprono un ruolo essenziale nella decodifica del disco. Così, quando i metamorfici tapping math-core di “A Single Tear” (schema armonico simile alla “Aimless Arrow” dell’episodio precedente) si irrigidiscono nella colata metallica del ritornello e si ricompongono in una progressione emocore da cuore in gola, si comprende che il potere sconfinato di quell’unica lacrima racchiude l’oceano di emozioni contrastanti sotteso all’esperienza della paternità e delle sue nuove responsabilità (“When I held you for the first time / I knew I had to survive / As a single teardrop fell”). È questo il concetto da cui riparte il magniloquente doom della lunga title track, una riflessione diaristica sulle difficoltà insite nel futuro e sul doppio oscuro che alberga in ciascuno di noi (“I ask from within my heart, where did our failures start / If we must imagine ourselves as someone, somewhere else / And what does the future hold, if we’re running low on health and hope / Our denial it speaks in tongues, there’s monsters among us”) che, nelle paradigmatiche chitarre seppia dell’anthemica “Thousands Of Miles Between Us”, diviene germe di separazione interpersonale prima ancora che geografica (“Numbness makes some sense / Without a consequence / Something not meant to be / Found a way to breathe”: quasi una versione al bromuro della “Never Meant” degli American Football).

L’alterità di cui sopra è un fantasma che riappare e si replica in infinite manifestazioni, da una “Trigger” che gioca a rinverdire i liquami blues-core dei Jesus Lizard (più che Bannon-Yow, è Ballou-Denison il paragone calzante) al quasi sludge atmosferico di “Under Duress”, dall’epica guerresca e lineare della conclusiva “Reptilian” (con alcuni rinforzi triggerati vagamente metalcore di cui si poteva fare a meno) alle furibonde scariche noise di “Murk & Marrow”. Poi, naturalmente, ci sono i “soliti” Converge, gli antologisti di loro stessi, quelli delle geometrie aliene di “Broken By Light” (suonata alla velocità della luce) e dei blast devastanti di “Cannibals”, quelli che scorrazzano indisturbati nel playground dei furono Dillinger Escape Plan vandalizzandone ogni singola struttura (“Eye Of The Quarrel”) e quelli che, in “I Can Tell You About Pain”, estraggono dal cilindro un’insperata bordata hardcore old school à la “When Forever Comes Crashing”.

Ciò che comincia a mancare – aldilà dell’ammirevole evoluzione personale di un gruppo sulla cresta dell’onda da più di vent’anni – è l’effetto sorpresa, la novità che tenga incollato l’ascoltatore dal primo all’ultimo secondo. Ma, d’altro canto, c’è un tempo per tutte le cose: e l’obiettivo dei Converge del 2017 è, manifestamente, altro.

V Voti

Nessuno ha ancora votato questo disco. Fallo tu per primo!

C Commenti

Non c'è ancora nessun commento. Scrivi tu il primo!
Effettua l'accesso o registrati per commentare.