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R Recensione

8,5/10

Il Teatro Degli Orrori + Zu

Split

Cosa succede quando si incontrano le due migliori band italiane, all’apice della loro forma? Qualcosa di magico, irripetibile: un capolavoro senza tempo e senza età, un preziosissimo manufatto da tramandare ai posteri. Vediamo di abbandonarci ai ricordi, almeno per un istante… In quel vicino, lontano 2008, fresco reduce dal fragoroso “Dell’Impero Delle Tenebre”, Il Teatro Degli Orrori sta preparando il terreno per l’eccellente (e fortunatissimo) bis, un “A Sangue Freddo” che ne decreterà il grande successo congiunto di pubblico e critica e, ahinoi, ne vaticinerà il precoce declino artistico. Quanto agli Zu, l’uscita di “Carboniferous” (e il torrenziale tour promozionale di un anno e mezzo) li consacrerà definitivamente alla leggenda, prima che gli equilibri saltino del tutto e la formazione originale si sciolga (l’approdo alla batteria di Gabe Serbian prima, di Tomas Järmyr poi appartengono quasi ad un’altra era geologica).

Le cronache dell’epoca registrano una serie di concerti con entrambi i gruppi sul palco (ne parlarono, in un vecchio report, anche i nostri Matteo Castello e Alessandro Pascale), su tutti una memorabile calata al fu Circolo degli Artisti. Le tracce rimaste in rete, per quanto amatoriali, permettono di farsi un’idea sommaria di che cosa dev’essere stato quell’incontro-scontro tra intelligenze musicali: da una parte la geometrica furia chirurgica degli Zu, uno spaventoso ed acutissimo cerbero di sangue e metallo a gittata continua, dall’altra il lirismo bacchico e ottundente di un gruppo nel quale, al suo meglio, convivevano spoken word politico, post-core americano e melodismo mediterraneo.

A siglare il patto di sangue, oltre le parole morte e i video traballanti, ci pensò un favoloso 10” in 666 copie numerate a mano (ristampato quattro anni più tardi, in 300 copie supplementari, da Tannen). Fu nientemeno che un piccolo miracolo, il coronamento di un percorso di rinnovamento che coinvolgeva già da tempo l’underground tricolore e che, in quegli stessi anni, avrebbe portato alla luce suoni e volti interessantissimi (pensiamo solo al noise del Canalese). In poco più di undici minuti, un brano per lato, si fa la storia. Rullate preparatorie introducono il passo oscuro e pencolante di “Nostalgia” (8:20, side A), il disperato monologo allo specchio di un cuore infranto (“Che cosa c’è di strano / Non c’è niente da ridere / All’anima fa bene un po’ di nostalgia”) sonorizzato dai King Crimson di “Red”. L’ingresso sulla scena degli Zu, dopo due minuti e mezzo, si materializza in ondate di spastico nervosismo free jazz, con Luca Mai che tortura le ance del suo baritono e la sezione ritmica di Massimo Pupillo e Jacopo Battaglia lanciata in un galoppo claudicante. È solo l’antefatto della cavalcata wagneriana: la poliedrica chitarra di Gionata Mirai riemerge al traino, sgretolandosi in una viscerale sonatina prog-core di grande impatto emotivo, una chiosa di gran gusto e fantasia al riallacciarsi del tema iniziale. Servirebbe, a questo punto, uno stacco, una decompressione, ed invece i giri aumentano ancora ed arriva la manata in pieno volto: il basso siderurgico di “Fallo!” (3:27, side B) contorna un delirio di parole in libertà tra i più caustici mai scritti da Pierpaolo Capovilla, un noise-math-core da capogiro che si strozza in un vortice di violenza assoluta, sarcastica, liberatoria.

Dal momento che non sono come quei cialtroni che dicono sempre che lo vogliono fare e poi, poi non lo fanno mai, mi butto: miglior disco de Il Teatro Degli Orrori, miglior disco degli Zu dietro a “Carboniferous”, migliore uscita di sempre de La Tempesta.

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