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R Recensione

6,5/10

Ornaments

Drama

Dieci anni separavano la prima autoproduzione degli Ornaments dall’esordio lungo vero e proprio, uno “Pneumologic” già divenuto – nel suo piccolo – disco di culto. In appena tre (senza contare il “Metamorphosplit” con gli Zeus!) il quartetto di Correggio approda al formato congeniale per ogni act post metal che si rispetti: l’opera concettuale, la grandeur teatrale, il dramma dal respiro epico (con probabili ambizioni universalistiche: “Drama” è il massimo della non referenzialità). Evoluzione prevista, voluta o dovuta? Difficile dare una risposta univoca. D’altro canto, la scelta di musicare una pièce contemporanea che è libera rilettura del Promethéus desmótes – unica, fra tutte le ponderose tragedie eschilee, ad aver avuto una ricezione senza pari in musica, anche grazie ai numerosi sottotesti politici soggiacenti al suo nucleo tematico – è tale da non lasciare troppi dubbi sulle superiori ambizioni del gruppo.

Pur nell’ovvia riproposizione di schemi stilistici ormai perfettamente collaudati, la maestosa cubatura sinfonica del suono degli Ornaments non smette di stupire: così che – tra grovigli armonici prog metal, assalti post-black-core à la Cult Of Luna e sognanti sdilinquimenti strumentali sullo sciaguattare del lirico violoncello di Daniele Rossi – della possente “Prometheus” rimangono paradossalmente impressi i rientri del basso ipersaturo di Enrico Baraldi. L’ottimo episodio cantato del disco precedente (“Breath”, interpretato da Silvia Donati) viene qui sdoppiato in due momenti distinti, entrambi caricati sulle capaci spalle di Lili Refrain: “Oceano” gioca a frangere continuamente le malinconiche trame chitarristiche con infiltrazioni di feedback e crescendo tribal-stregoneschi (esemplare la coda), laddove “Aeternal” – dopo una statica partenza jazzy – si regala una marmorea sequenza centrale à la Pelican. La qualità della scrittura non si discute ma, per quanto ottimi, tutti questi pezzi tendono ad assomigliarsi, al punto che le impenetrabili maglie di chitarre di “Suneidesis” – una versione post-core degli Ulcerate più atmosferici? – sembrano riadattate dalla vecchia “Pneuma”. Meglio, sotto quest’aspetto, quando il gruppo lavora su versanti meno convenzionali (l’ouverture industriale di “Efesto”, il minimalismo lirico e palpitante di “Io”, la lenta e decadente autocombustione cui vanno incontro le sovraincisioni di archi di “Zeus”).

Obiettivi sino alla fine: “Drama” è intenso sino al parossismo, corposo come da manuale, generoso oltre ogni limite – se si esclude, naturalmente, il limite del proprio genere d’appartenenza, che assume a tratti le sembianze di una gabbia autoreferenziale. Chi già apprezza continuerà a farlo, gli altri passeranno oltre.

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