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R Recensione

6,5/10

Ornaments

Pneumologic

Il dato anagrafico ci racconta come gli Ornaments si siano autoprodotti, per il primo vagito lateralmente discografico ad uso e consumo degli amici impegnati a vederli in concerto, quasi dieci anni fa. Un’enormità, anche per chi i tempi li plasma, e non li subisce. Con il quando ed il come bisogna tornare a fare i conti più e più volte, nell’ascolto di uno “Pneumologic” che tutto sembra, fuorché un debutto compreso in sé stesso. Dieci anni separano, come uno spartiacque invalicabile, l’intenzione dall’atto: la decade del tutto e del contrario di tutto. Mette spavento, per certi versi, la capacità di scrivere “canzoni” del quartetto modenese,  con pezzi – di vita, di musica – di Nicker Hill Orchestra e The Death Of Anna Karina: un meccanismo di panzer stordenti e gabbie empatiche come non se ne sentiva, almeno, da “Thanatology” dei Dead Elephant (sebbene lì il dolore e la desolazione avessero raggiunto livelli di creatività, propriamente e metaforicamente, davvero trascendentali). Un meccanismo i cui padri, e le cui radici, sono ormai perse lontane nel tempo.

Parlare degli Ornaments, ne convengo, è parlare di una vicenda umana che sola può essere pienamente compresa da chi l’ha vissuta, o da chi ne ha condivise le evoluzioni. Non spetta a me mettere becco su ciò che è stato, è e potrebbe essere. Si analizza in questo luogo la musica, o quanto di tangibile possa essere collegato ad essa. Per chi ha amato il post-core criptico degli anni ’90, i miasmi della Amphetamine Reptile meno chiassosa (e ancora più letale) o il disgregamento degli ultimi eroi stoner in fantasmi vieppiù tormentati e psichedelici, “Pneumologic” sarà lo zibaldone dove far corrispondere, ad ogni colpo di crash, un tuffo al cuore: materia oscura, magmatica, a tratti persino tooliana nel cercare di rifrangere la propria natura plumbea in pozzi di nerissimo sentimento dark (wave). “Pulse” va nella direzione dove i Neurosis non riescono, oramai, più ad incidere: sulla paradossale levità epidermica di riff che sono, in realtà, duri e pesanti come sassi, lente colate di doom ringhiante e distonico (o distopico?) acuminate da fraseggi slintiani. Per qualche attimo, “Breath” (bellissima, necessaria la geremiade inscenata da Silvia Donati) finisce addirittura per smarrirsi nel labirintico non-luogo spirituale degli ultimi OM – quello dei flanger, dei cori non-cori, delle sovraincisioni a cadere nel vuoto – per poi ritrovare il bandolo della matassa, e con questo giustificarsi, in una struttura decadente à la Battle Of Mice. “Aer”, a chiudere la triade, s’infittisce prog-oriented con una girandola di arpeggi in fallace compenetrazione, stordente escamotage degli inarrivabili Pelican di “The Fire In Our Throats Will Beckon The Thaw”.

Oggi come oggi, però, non si può più chiedere ad un genere morto e sepolto – in primis, nella sua ansiogena frenesia di sentirsi, di rimanere vivo – di suscitare le stesse emozioni che avrebbe potuto suscitare negli anni d’oro. Dispiace dover correggere gli Ornaments con gli Ornaments e non lasciar prevalere l’affezione sull’obiettività. “Pneumologic” nasce senescente e non si premura di nasconderlo, anzi. Tant’è che un occhio lo si chiude volentieri, ad esempio nei For Carnation dilaniati dalla furia belluina degli Isis di “Celestial” di “Pneuma” (pezzone, con levitante sezione centrale quasi Current 93, e coronato da un tribale epilogo sludge su due accordi in slow motion, da brivido), o nel violoncello che spunta quasi per caso nelle vibrazioni conclusive di “Galeno”. Altre cose, nel 2013, sembrano invece già difficili da giustificare: Tommaso Garavini dei Concrete si sgola, dietro al microfono, ne “L’Ora Del Corpo Spaccato”, in un anacronismo musicale e letterario che lascia dietro molto stridore, e (quasi) nient’altro.

Fosse uscito nel 2003, come auspicio iniziale, staremmo qui a tessere le lodi di una grande pietra miliare. Dieci anni dopo, siamo costretti semplicemente a riferire di un ottimo, canonico episodio di ortodossia oltranzista.

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