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R Recensione

6,5/10

Retox

Beneath California

Considerato come una manciata di date live sparse lungo interi anni non riportino automaticamente in vita una band, possiamo considerare congelata l’esperienza The Locust, anestetizzata in uno hiatus dal sapore definitivo, nonostante sporadiche comparsate e ancor più radi squilli produttivi. In questo contesto va interpretata la volontà di Justin Pearson e Gabe Serbian: trovare nuove ed alternative vie d’espressione al filone del gruppo madre, giunto ad un punto di non ritorno con l’ultimo LP “New Erections” (2007). Come se i folletti (cresciutelli, oramai: gli –anta bussano alle porte) dell’hardcore schizoide made in San Diego, da bravi autarchici a stelle e strisce, non si fossero divertiti, nel tempo, a giocare alla moltiplicazione dei pani, dei pesci e dei side projects. Ma Retox, a differenza di molti altri, è un progetto nato per rimanere, e rimanere convintamente: prova ne sia che, in meno di un lustro, sia già arrivato alla terza prova in studio, la seconda con Brian Evans dietro le pelli (che sostituì Serbian, poi confluito negli Zu, in occasione delle takes del precedente “YPLL”, 2013).

Beneath California” è un disco analizzabile e scomponibile su tre differenti tiers, fra loro comunicanti. Il primo – logico, legittimo – è interamente focalizzato sulla durata: brani brevi, quando non brevissimi (si va dai cinquantadue secondi dell’opener di “Die In Your Own Cathedral” ai 3:17 della conclusiva “Strong Wrong Opinion”), che richiamano subitamente alla mente le strutture dell’avant grind statunitense e di tutti i corollari – matematici, acidi, spastici, deformi… – che ne hanno ampliato ed arricchito il paradigma. Odori e sensazioni ampiamente sdoganati, sebbene ben lontani dal ritenersi novellini. Il secondo si compone di materiale verbale: i testi, i geniali titoli dei singoli episodi (“Death Will Change Your Life” è da premio letterario!). Abbiamo imparato a riconoscere nell’ironia, sovente spinta oltre i limiti del sarcasmo più acuminato, il rovescio della medaglia del rigoroso – e a tratti pedante – impegno etico attribuibile alle vibrazioni pe(n)santi germinate dal cadavere in decomposizione del grunge: un’altra slot da riempire in supporto alla tesi di cui sopra.

Tuttavia, senza la prova definitiva, quella musicale, si tratterebbero di sole chiacchiere al vento: e la musica, sommariamente assimilabile al suddetto filone, rivela in verità, ad un ascolto attento, profonde divergenze. In meno di un minuto e mezzo, “We Know Who's The Prick” piega il punk alle esigenze tecniche del math-core, incocciando poi su fraseggi di spessore stoner e quadratura hard rock: “Disappointing Grade” pesca del repertorio dei Refused di “The Shape Of Punk To Come”, esaltandone groove e spettacolarità (e rischiando qualcosa nel recupero di certe accordature ribassate); “This Should Hurt A Little Bit” veste gli Holy Molar di “The Whole Tooth And Nothing But The Tooth” con la tonaca da santone di King Buzzo, “Without Money, We’d All Be Rich” riveste i paraurti di solido ghiaino hc. Detta altrimenti, con spiccata brutalità, i Retox scelgono di dirottare i suoni urticanti della propria formazione su un assetto squisitamente rock: un’ardita commistione che, se nel caso dei Kylesa aveva fallito miseramente, in “Beneath California” (molto più che in passato) genera il tetro ed ansiogeno schiumare ante-sludge di “The Inevitable End”, i Barkmarket impiccati ai semitoni lizardiani di “Let’s Not Keep In Touch”, l’esuberante noise-core di “Wooden Nickels” stabilizzato nel bel midtempo di “Strong Wrong Opinion”, i Cephalic Carnage che vanno a far visita ai Blacklisted in “The Savior, The Swear Word”.

Ne nasce, per la gioia di tutti, un disco feroce, eterogeneo, preciso e compatto. Pillole di classe e saggezza a futura memoria.

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