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R Recensione

7/10

Sumac

What One Becomes

Dodici anni dopo il decollo di “So Did We”, nuovamente il ringhio ferino di Aaron Turner: gutturale, tremendo, come di un animale ferito a morte che vaghi nell’oscurità di boschi sconosciuti. Gli alberi sono qui pilastri di feedback, glaciali disturbi di fondo, spazzati dal vento gelido di un terminale rimestio noise che riduce in poltiglia l’interplay basso-chitarra-batteria e alza nugoli di scorie grind radioattive. “Image Of Control” si presenta sulla scena con il secco fragore di un tuono: la rappresentazione parossistica di un mondo crudele, ostile, violento, con i riff divenuti stringhe stonate e la sezione ritmica spappolata da un’irrefrenabile forza centripeta. Poi, lo svuotamento improvviso. Tutto attorno, per una frazione di secondo, il silenzio. Nel nulla, comincia a prendere corpo e levitare una lunga, frastagliata frase di chitarra suonata a singhiozzo, una sorta di americana da Doomsday. È il preludio alla battaglia. Le colt cantano un massacro post-core in tempi dispari, in cui la chitarra (sempre quella chitarra) si incunea a disegnare astrali melodie puntinistiche, prima di lanciarsi nuovamente al galoppo, in un crescendo inesorabile ed inestricabile di complesse sequenze strumentali che finisce esattamente com’era iniziato: nel caos primordiale.

Se quanto detto vi sembra già troppo, vi troverete presto a relativizzare la vostra presa di posizione: “Image Of Control” è solo la prima delle cinque tracce – una delle più brevi – che compongono la scaletta di “What One Becomes” (58:44), secondo full length dei Sumac, in uscita per Thrill Jockey ad appena un anno di distanza dall’esordio “The Deal” (2015, Profound Lore). Turner – che, dopo l’indimenticabile decennio a capo degli Isis, è oggi voce e sei corde di questo progetto – lo ha definito come un esperimento che ragiona attorno al vivere con la perenne compagnia dell’ansia, senza poter trovare un conforto catartico nella musica che ci circonda: roba che fa sembrare i recenti, densissimi “The Crash And The Draw”, “Mariner” e “Shrines Of Paralysis” (giusto per citare tre facce del cubo di Rubik che è il post metal del 2016) come un compitino da educande, insomma. Effettivamente, il peso specifico del disco, musicalmente e liricamente, è così elevato da risultare – almeno ai primi ascolti – sfiancante ai limiti dell’insostenibilità. Ci vogliono il coraggio del melomane e l’incrollabile caparbietà del ricercatore per perseverare nell’esplorazione di un corpo solido tanto estremo nelle sue soluzioni, quanto immaginifico nel risultato che ne deriva.

L’andatura pencolante e plumbea della prima metà di “Clutch Of Oblivion” è, forse, il solo momento di apparente quiete dell’album, una stasi post metal che urla a pieni polmoni la vicinanza con i rallentamenti chitarristici dei Pelican dei tempi d’oro: il brano si accende poi improvvisamente, scrollandosi di dosso la patina sludge e avviluppandosi in una serie di furibondi spasmi math-core in cui, come fari nella nebbia, brillano minimali cellule melodiche, autoreplicanti barbagli armonici. Mille muscoli si tendono e scattano ad un tempo, mille muscoli sussultano e si contraggono, di mille muscoli si intessono i brani di “What One Becomes”: un compendio di collera paranoica in cui intontimento kraut e volatilità geometrica si fondono in un tutt’uno (si ascolti, a tutto volume, una “Rigid Man” che, sgusciata fuori da un non luogo dark ambient puntellato da sibili e piatti in sospensione, riannoda come se niente fosse la precedente, terremotante narrazione heavydelica). Il punto di svolta è nella lunga suite “Blackout”, dove l’ipercinetico scatto dei dieci minuti (quasi una riedizione neurosisiana dei Mars Volta) annuncia un’inaspettata, acida ouverture chitarristica in 7/4, tra gangli prog metal, sinuosità funk e colorazioni post. Sublime è poi il lavoro del basso di Brian Cook (già motore di Russian Circles, Botch e These Arms Are Snakes) e del proteiforme Nick Yacyshyn (già batterista dei Baptists) nella conclusiva “Will To Reach”: come tramutare i Bohren & Der Club Of Gore in un maestoso sludge jazzato che, in coda, si disarticola in un incendio brutal di potenza spropositata.

What One Becomes” è difficile, difficilissimo. Pesante, pesantissimo. E però i Sumac, grazie anche al miracoloso missaggio di Kurt Ballou dei Converge, riescono nel compito che aveva visto vincitori solo Gigan e Ulcerate prima di loro: trasformare la musica estrema in qualcosa di diverso dal solito strapotere fisico. Qualcosa di migliore. Qualcosa di – sì! – superiore. Turner e compagni forzano la mano e, ancora una volta, dimostrano di aver ragione.

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