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R Recensione

7/10

The Turin Horse

The Turin Horse [EP]

Ognuno di noi dovrebbe ascoltare Seneca ed esibire sul petto le proprie cicatrici come fossero medaglie: segni di lutto che divengono segni di lotta. Di colpi e perdite Enrico Tauraso ed Alain Lapaglia ne sanno qualcosa. Dietro i loro nomi fremono i ricordi di un passato mai realmente passato, la testimonianza vivente di una tra le âge d’or più luminose ed influenti di sempre per la heavyness italiana: il mastermind della luminosissima stella polare del fu glorioso Canalese noise, i Dead Elephant, e il batterista originario di quei MoRkObOt capaci – con una formula inimitabile e per questo in seguito imitatissima – di riprocessare la sintassi del post-core tricolore. E dato che nell’era digitale scripta volant, sed verba (et musica) manent, il cliffhanger a cui erano stati riannodati i capi di un discorso prematuramente interrotto viene qui scardinato da un progetto a due, The Turin Horse (il riferimento, a partire dalla famosa vulgata nietzscheiana del cavallo, è principalmente al celebrato A torinói ló di Béla Tarr e Ágnes Hranitzky), che nell’oscurità spaziale e nella laboriosità temporale della sua gestazione torna a coltivare propositi di rinnovamento. Di fuoco.

Ecco che il rumore della battaglia sale con fragore assordante e si reifica – attendendo, senza fretta, l’estensione lunga prevista per l’estate – in un curatissimo EP in edizione limitata (cover di Kuba Sokólski, 48 copie in rosso e altre 248 in grigio), coprodotto da una cordata di cinque etichette e realizzato secondo una f(i)er(re)a logica di assoluta indipendenza (suoni ed effettistica di Tauraso, per dire, sono gentilmente curati dai preziosi manufatti di Sacred Fire Inc., ossia sé stesso: un’artigianalità d’altri tempi che si sente eccome). Dei tre brani in scaletta uno, “Blame Me”, stravolge l’anthem degli Unsane di “Scattered, Smothered & Covered” (1995), riducendone lo sferragliante andamento metallico in una fumigante ed assordante poltiglia noise-core. La stentorea cifra di un suono scattante, animalesco eppure sempre imprevedibile, d’altro canto, era già stata determinata dalla fucilata iniziale, una “The Regret Song” le cui virulente esplosioni di rabbia (qualcosa come i Neurosis presi a pugni dai Discordance Axis) venivano incanalate da sezioni di costruzione chitarristica in palm mute tutto spasmo e crepitio. L’apice della tensione tecnica ed emotiva viene poi raggiunto nella notevolissima “The Light That Failed”, un incandescente fiume di lava (la fantasia dei pattern ritmici di Lapaglia ricorda gli episodi più stralunati di un “MoRbO”) che, nella seconda metà, si squaderna in una magniloquente impennata post metal, un segmento di straordinaria intensità che – citando la robustezza onirica dei Pelican e le infatuazioni dark ambient degli ultimi Lento – rievoca la lenta carburazione centrale della vecchia, magistrale “Black Coffee Breakfast”.

It is happening again, insomma. E meno male. 7 solo perché l'oggetto del giudicare è ancora troppo scarno.

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zagor alle 0:03 del 9 aprile 2018 ha scritto:

mitici Unsane!!!! grande recensione as usual