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R Recensione

7,5/10

Town Portal

Of Violence

Spiegare come e perché certi dischi attraggano più di altri è arduo almeno quanto districare le componenti estetica ed emozionale del e nel sublime – che è tale proprio in quanto irrazionale, totalizzante, assoluto, spaventoso: come osservare da lontano, con un distacco impotente e quasi trasognato, fontane di lava prorompere dal cratere butterato di un vulcano, riplasmare la morfologia del territorio circostante, battere poi in ritirata con rombo di tuono. E la musica, in tutto questo? La musica è quanto di questo immaginario si dà in traduzione sonora, fuori da uno spaziotempo determinato: la bellezza della distruzione, la nostalgia del baratro. Ai più queste parole sembreranno esagerate, se non addirittura sprecate, per un disco di genere quale effettivamente è “Of Violence”, terza opera lunga dei danesi Town Portal: lo pensa, per primo, l’emisfero illuminista e antiromantico di chi scrive. Se tuttavia esistono cose che non possono essere spiegate per quello che sono, questa recensione è parte integrante del gruppo.

È a ridosso degli anni ’90 più cerebrali ed intensionali che i Town Portal intessono le trame della loro narrazione: le spigolose squadernature del post rock tangente -core, le asperità delle geometrie math, il melodismo obliquo e anticonvenzionale del chitarrismo alt. Niente di nuovo, messa in questi termini: ma è a questo punto che i singoli elementi si fondono in un tutto indecifrabile e subentrano le esperienze di ascolto suggestivo, le corde interiori percosse e pizzicate in varia foggia. Particolarmente illuminanti, tra un brano lungo e l’altro, sono gli episodi dal minutaggio più contenuto, dove la band lavora di cesello e indovina alcune tra le migliori soluzioni dell’intero disco. Dopo i dolenti, sospesi arpeggi slowcore di “Better Angels” (quasi una lamentazione blues uscita da “Spiderland”), sono gli acidi semitoni shellachiani di “Veyshnorians” a sgusciare in sequenze dissonanti e a detonare in cangianti ed ipnotiche serpentine emocore: sullo zoppo schema ritmico in levare di “Receiving End” la chitarra di Christian Henrik Ankerstjerne interviene con alieni fraseggi puntinistici, una frase minimalista non consequenziale nello spirito di certo jazz scandinavo – un legame, questo, che nel sogno lucido di “Othering/Anothering” si trasforma in tiepidi, lontani miraggi post-blues.

L’energia grezza sprigionata dall’interplay strumentale fra i tre membri, lungamente tenuta sotto controllo anche nelle esplorazioni più abrasive (si ascolti il nervoso pesticciare caballeriano della coda di “Human Touch” o l’impatto travolgente di “Archright”, successivamente risolidificatasi in una pencolante andatura arpeggiata sorretta dal sax di Will Gardner e dalla tromba di Tommy Peach), deflagra e tracima infine nella straordinaria sequenza centrale di “Of Violence”, quasi tredici minuti di splendida intensità. “Soil To Own” è una stilettata post-core costruita sui ciclici incastri millimetrici del basso di Morten Ogstrup Nielsen e della batteria di Malik Breuer Bistrup (una gioia per le orecchie, un balsamo per il cuore): la chitarra di Ankerstjerne si muove sul crinale di un sobrio paesaggismo riverberato che, dopo un adeguato build up, sfiata in un epico muro di suono. “Roko’s Basilisk”, al contrario, è un’emozionante cavalcata post metal (risuona, a sprazzi, l’eco degli immaginifici Pelican di “The Fire In Our Throats Will Beckon The Thaw”) i cui bassi frastornanti declinano verso delicati, inafferrabili landscapes jazzedelici. L’eruzione e la cenere. L’esplosione e il silenzio. Il tramonto.

È probabile che di “Of Violence”, uscito poco più di un mese e mezzo fa, non si ricordi già più nessuno. Poco male: un motivo supplementare per conservarlo gelosamente con sé, ascoltarlo metodicamente, assorbirlo, farlo conoscere.

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