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R Recensione

7/10

Cloakroom

Infinity

Spiace pensare che Infinity sia un disco che potrebbe piacere a molti ma, con tutta probabilità, arriverà alle orecchie di pochi. E più che altro si tratta di una questione di ghettizzazione musicale: i Cloakroom sono la nuova band di Doyle Martin, voce e chitarra degli oramai defunti Grown Ups - discreta compagine riconducibile al fenomeno dell'emo-revival di questi ultimi anni - e sembrano destinati a rimanere una bizzarria all'interno di un contesto decisamente limitante. Basta una semplice occhiata alla label che da alle stampe il loro debutto o ai blog e siti specializzati che ne parlano - con toni entusiasti peraltro - o alle band con cui dividono il palco  per rendersi conto che, all'infuori del loro cortile, quasi nessuno si è accorto di loro.

Un peccato, dicevamo, perché i Cloakroom spaziano e sfiorano ambiti disparati, contigui e non solo al punto di partenza. Per farla semplice, Infinity potrebbe essere presentato come un compendio di molte musiche "post" degli ultimi due decenni: si sente molto post-rock di discendenza Slint-iana nella  struttura dei brani e ancor di più slowcore nel loro umore; ritroviamo il post-hardcore nei momenti più compatti e spigolosi come pure certe ritmiche del post-punk a stelle a strisce e infine quella malinconia opprimente e pesante ritrovabile in certo stoner contaminato alla maniera di True Widow e Jesu

Dal pericolo di uscirsene con un polpettone senza capo ne coda i Cloakroom se ne tengono ben distanti nel modo più semplice possibile: scrivendo canzoni, belle e semplici, senza nascondere una certa vena cantautorale di impronta indie-emo (fin troppo facile pensare a David Bazan/Pedro The Lion, anche per via del timbro vocale simile), e su queste basi di partenza si sviluppa il loro lavoro. In definitiva, i Cloakroom vanno a compiere il percorso inverso di molti loro colleghi che si cimentano in territori affini - penso a molte uscite in ambito slowcore o shoegaze - i quali preferiscono lavorare di fino sul suono, creare un mood coerente all'interno del disco, prima ancora di scrivere canzoni. 

In apertura Sedimentary ha l'onere di conquistarci con la sua struttura dilatata per oltre nove minuti e lo fa evitando le scorciate più abusate dal post-rock: niente epici crescendo o ricorso al solito soft/loud ma un'incedere sofferente e nervoso - puntellato da distorsioni e da un basso pulsante e ansioso - che sembra voler prendere mille direzioni e poi nessuna, fino a spegnersi lentamente in una dimessa coda strumentale. Senza soluzione di continuità, quasi emergendo a fatica soffocata dai riverberi del brano precedente, segue E, classico brano slowcore con melodia quasi trasognata ma che sparisce nella nebbia polverosa alzata da una chitarra stoner.  Mind Funeral è l'altra perla del disco, anch'essa divisa tra parte cantata e strumentale ma con una tentazione all'epico, alla grandeur, che non arriva mai e rimane soltanto aspirazione frustrata nel dolente intervento vocale di Martin. A onor del vero non tutto funziona, ci sono un paio di passaggi poco a fuoco o semplicemente meno incisivi e in un disco che non raggiunge la mezz'ora non è cosa trascurabile, ma Infinity ha momenti di rara qualità e intensità oltre ad essere un ibrido davvero intrigante e di grande potenziale emotivo, confermando come sempre più spesso stiano arrivando proposte interessanti e per nulla banali dai transfughi della scena emo.

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Voto degli utenti: 4,5/10 in media su 1 voto.
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motek 4,5/10

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