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R Recensione

6/10

A Storm Of Light

And We Wept The Black Ocean Within

Dite pure quello che volete, ma Josh Graham è un vero e proprio vulcano. In continua ebollizione. Vate della scena post metal americana, divenuto famoso su scala globale grazie al suo inserimento nei Neurosis, come incaricato di proiettare, alle spalle della band in azione, apocalittiche diapositive rappresentanti scene paesaggistiche in perfetto connubio con i tetri watt esplosi dalle chitarre, Graham è in realtà anche un ottimo chitarrista. E questo gli ha permesso di fondare, col passare del tempo, un side project dietro l’altro, stringendo di fatto una fitta ragnatela di rapporti umani e lavorativi con l’intero settore. Dai Red Sparowes, fautori di un meraviglioso post rock strumentale dalle tinte cosmiche, che ricordiamo solertemente per il capolavoro “At The Soundless Dawn” (2005), ai Battle Of Mice, spettacolare combo che univa il post-core al doom e che ritrovava, nella particolarissima voce di Julie Xmas, un giusto equilibrio fra schizofrenia e stabilità (notevole, sotto questo punto di vista, “A Day Of Nights” del 2006: da avere).

A quanto pare, però, Stachanov dev’essere un chiodo fisso nella mente dello strumentista americano che, non pago di tutte le sue esplorazioni musicali, decide di abbandonare i Red Sparowes – colpevoli, a sua detta, di un suono troppo sognante e derivativo: quando si dice il de gustibus! – per ritornare alle origini, quelle radici cupe e massicce che, per un motivo o per l’altro, non avevano trovato uno spazio preponderante nelle sue ultime avventure. Con una garanzia dietro le pelli come Vincent Signorelli, già Swans, ed ex membri di Satanized e Tombs a completare la line up, Graham se ne esce con questo nuovo gruppo, A Storm Of Light, il cui esordio, chilometricamente denominato “And We Wept The Black Ocean Within”, esce a maggio 2008 sotto Neurot Recordings.

Il disco, inclusa la bellissima copertina, è esattamente come lo avreste potuto immaginare: oscuro, violento, monolitico, massacrante, pressoché indigeribile per chi, a queste sonorità, non è avvezzo. Il chitarrista, qui anche in vesti di tastierista e voce principale, questa volta sembra fare veramente sul serio. Obiettivo dichiarato, quello di avvicinare il più possibile “A Through Silver In Blood” della band madre e, magari, imprimerne più a fondo la lezione doom. Niente spazio per le sperimentazioni, questa musica è massiccia, lacerante, fisica.

E qui sta il busillis.

Lo strapotere del riff, rarissime divagazioni extra-metal, una tendenza ad abortire il più possibile anche quelle affascinanti striature psichedeliche che, nel corso della sua carriera, hanno sovente arricchito la difficile pietanza della sua proposta: A Storm Of Light, in tutti i sensi, è proprio un disegno senza compromessi. Il che potrebbe essere l’unico, vero problema di “And We Wept The Black Ocean Within”. Magmatiche odissee dai sette minuti in su, intense ed emozionali come sempre, sostenute da un drumming lento, cadenzato e pesantissimo, risacche e monsoni che spirano sul fondo, quasi a sospirare: ehi, ci siamo anche noi. Ma poi, nient’altro: nessun guizzo chitarristico, nessun pezzo che predomini in maniera speciale sugli altri, nessuna particolare caratura strumentale. Spesso si ha la sensazione, nemmeno troppo offuscata, di specchiarsi in un esercizio di stile, per quanto splendido.

Indubbiamente, quando si sentono i Neurosis che si scontrano con gli Isis e decelerano bruscamente in una lamentosa litania (“Leaden Tide”), oppure granitiche marce belliche che caricano cavalcanti sincopi ritmiche (“Thunderhead”, la migliore), o ancora le solite sfiancanti, strazianti stigmate post-core primo periodo, come “Vast & Endless”, che trascinano via per minuti e minuti un riff via via sovraccaricato di effetto e spessore, non si può non provare un brivido di compiacimento. Altrove, invece, la miscela viene riproposta in vesti notevolmente meno solide e fluide – si fa per dire –, come nei due brani più lunghi del disco, “Black Ocean” e la conclusiva “Iron Heart”, sinceramente troppo prolisse, chiusura inevitabile di un riciclo inventivo ormai fermo e stagnante.

Cosa c’è, dunque, che non va, in questi A Storm Of Light? C’è, forse, che non si sentiva il bisogno di imbastire un discorso a parte per un assemblamento di musicisti sì notevoli, sì creativi, sì storici, ma forse non abbastanza da scongiurare il pericolo di una sistematica seduta sugli allori. Ed allora sì, la doppietta centrale “Undertow” – “Mass”, l’una classica strumentale ambient che apre per la seconda, appare davvero, sebbene non del tutto esaltante, la cosa più originale del pacchetto, con le sue aperture armoniche che riportano molto da vicino Pelican e Meniscus, mentre la voce spinge e tira riportandoci su una dimensione più terrena e corporea.

Errare humanum est: se vi piace, chiamatelo ancora supergruppo.

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