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R Recensione

7/10

Cult Of Luna & Julie Christmas

Mariner

Put me down where I can see you run

Questa recensione non vuole farsi solo legittima segnalazione di una fra le più importanti collaborazioni dell’ultimo decennio in ambito post metal: è, parimenti, un tentativo – deciderete voi in che misura riuscito o meno – di (ri)scoprire un’assoluta protagonista della scena, interprete principale dei drammi e degli sconvolgimenti interiori di cui si intesseva l’esordio (ed unico disco) del supergruppo Battle Of Mice, “A Day Of Nights”. Un po’ di aneddotica, per chi non sa di cosa stiamo parlando (e ambisce, giustamente, a colmare le sue lacune), non guasterà. La vulgata riferisce che l’idea del gruppo venne a Julie Christmas, una decade orsono, dopo aver allacciato una tormentata relazione con Josh Graham, tuttofare di Neurosis e Red Sparowes e futura mente di A Storm Of Light. Grandi personalità artistiche e psicopatici sociali, i due arrivarono ad un punto tale di rottura da non sopportare nemmeno di suonare e registrare nella stessa sala: logico immaginare come tutta questa tensione, questo insanabile contrasto si fosse conseguentemente raggrumato nei brani di un disco conflittuale e catastrofico da cima a fondo, tra i più corrosivi Moloch del metal strumentale che, pure, in quegli anni toccava i suoi apici indiscussi (“Panopticon”, “At The Soundless Dawn”, “The Fire In Our Throats Will Beckon The Thaw”).

Che le minestre riscaldate siano deludenti ad ogni latitudine ce lo suggerisce il fatto che non ci sono giunte voci di pericolose liason tra Julie e i Cult Of Luna: la duratura infatuazione reciproca, sfociata poi casualmente nel tandem, ha un taglio squisitamente artistico. A rimanere e parlare è, piuttosto, “Mariner”, un articolato concept che, sin dalla titolazione, sembra in qualche modo opporsi al precedente “Vertikal”. Ai paesaggi lividi, grigiastri, plumbei e post-industriali di quello si oppongono, fattivamente, i vuoti sconfinati e gli sciaguattanti non luoghi di questo, un totem eretto in onore del viaggio (sia esso per terra, per mare, per il cosmo) come simbolo di rigenerazione, catarsi e rinascita dalle scorie urbane (umane?). È sì, dunque, una torre di Babele che svetta imponente, ma, al contempo, un disco di estremo ed estremamente pronunciato dinamismo, “Mariner”: un disegno esplicitamente finalistico, dove passaggio, metamorfosi ed evoluzione si inseriscono, circolarmente, in uno schema ad uroboro.

Per abbracciare in un solo sguardo la densità specifica del disco occorre essere estremamente allenati o, viceversa, lavorare di buona lena ed arrivare ad un’affidabile crittografia via numerosi, reiterati ascolti. Qualche passaggio più manieristico (i tredici minuti di “Approaching Transition”) permette di abituarsi, senza contraccolpi deleteri, alla particolare vena psichedelica che permea l’andirivieni strumentale del sestetto di Umeå, incline ad incorporare miraggi dream e sovrastrutture shoegaze piuttosto che – come sarebbe legittimo aspettarsi – lente introspezioni floydiane ed effetti drone col pilota automatico. Ecco che anche un brano del genere, prevedibile nel suo scorrere in crescendo, si rende disponibile ad una lettura alternativa, più specifica: abbinarci i Nachtmystium non è blasfemia. La suite conclusiva, “Cygnus”, è il momento in cui davvero impenetrabile si fa la fusione tra chitarre cripto-black, synth tortili (splendido il lavoro di accompagnamento), ritmiche debordanti (lo si coglie sul finale) e le due voci complementari, il ringhio di Johannes Persson e le elevazioni imprevedibili di Julie: un’immersione totalizzante che vale il prezzo del biglietto. I cantanti si erano già intrecciati in precedenza, nell’iniziale “A Greater Call”: ma lì l’effetto straniante di alternanza, tra le disincantate morbidezze femminili e la ferinità primordiale maschile, era funzionale alla prima ed omnicomprensiva calata in tavola delle carte.

Tuttavia, ciò per cui “Mariner” fa faville – competenze tecniche e attenzione assoluta per le sfumature a parte – sono i pezzi in cui l’ospite esce dall’ombra e diviene, a tutti gli effetti, lead vocalist. Il materiale allora si contorce, si divincola, prende vita e dialoga con i suoi creatori, a mo’ di autocoscienza dostoevskijana. Sul basso tellurico di “Chevron” si insinuano da subito i miagolii di Julie, instabili e suadenti: l’equilibrio si infrange poderosamente una prima volta, intorno ai due minuti, e poi ancora, ripetutamente, man mano che le chitarre acquistano peso e fermezza, prima che una deriva new wave fletta l’accompagnamento su paradigmi spaziali di grande fascino. Superbe e spaventose sono, poi, le isterie di “The Wreck Of S.S. Needle”: lo stagno goth delle prime battute si increspa e tracima in una frazione di secondo, scosso dalle urla belluine di una Medea disarticolata del Nuovo Millennio, montando infine in un complesso landscape teatrale di prestanza metallica ed allure dark.

Non c’è nulla di radicalmente innovativo nel linguaggio di un disco che, piuttosto di ridiscutere le fondamenta stilistiche dei partecipanti, si affida alle singole capacità e alle incognite generate dalla loro interazione. Non è un nuovo “A Day Of Nights”: è una mossa alla quale, con estrema soddisfazione, possiamo plaudere trionfalmente.

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luca.r 7/10

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