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R Recensione

5/10

Helms Alee

Sleepwalking Sailors

Sarà perché lo stiamo avvelenando ed uccidendo giorno per giorno, il mare, che sentiamo uno spasmodico bisogno di dedicargli – come il buon vecchio parente morto da poco, l’esempio illustre di famiglia per cui scomodare le prefiche e i compositori di coccodrilli – un disco dietro l’altro? Sarà perché sentiamo i pesi, in tensione fra loro lacerante ed insanabile, dello sfruttamento animale e del veganismo cieco ed intransigente, che sempre più spesso adottiamo lo sdvig simbolista come sola prospettiva da cui vedere le cose, su cui imperniare i racconti (detta in parole povere, far finta di essere animali e giudicare come pretestuosamente pensiamo giudicherebbero loro)? O sarà forse, sotto sotto, l’arguzia del cavalcare il successo roboante di questi argomenti? La si prenda per provocazione, per ora. Poi si guardi la formazione tipo degli Helms Alee, di stanza a Seattle, Washington: power trio a due voci – una maschile, l’altra femminile –, contratti per Hydra Head e Sargent House, estetica da concept per vulgata, che se non c’è puzza di post-core morbido ed addomesticato qui, non ci può essere da nessun’altra parte.

Incrocerete difatti  – percentuali a vostra discrezione – i Neurosis “storici”, i Mastodon progressivi, i Kylesa e i Poison The Well ed otterrete, senza timore di sbagliare, il suono di “Sleepwalking Sailors” Che pure è costruito sapientemente, intendiamoci, equilibrato in ogni sua componente: il basso distorto ma mai tracimante, le chitarre rocciose e zigzaganti, le ritmiche incalzanti. Appagante a tratti (“Slow Beef”, aperta da un reticolo di arpeggi southern à la Across Tundras ed attraversata da un tribalismo metallico che detona sul finale), curioso altrove (“Dodge The Lightning”, che vagola spezzettata come un brano hardcore senza hardcore), frequentemente prevedibile e mediocre. “Pleasure Center” apre proprio come da copione: virilità post metal messa al servizio di possenti tamburi ed interstizi vagamente ambientali. Quando poi “Tumescence” sembra una versione doom dei Baroness – con ritornello spaziale, ancora pienamente kylesiano – il quadretto è completo, la raffigurazione piena. Non stupisce allora scorgere la trafila quanto mai telefonata di stereotipi: l’arioso gioco di tapping di “Dangling Modifiers”, la sindrome da landscape non voluto di “Pinniped” (perfetto apocrifo di The Ocean) e le staffilate noise di “Heavy Worm Burden” (guarnita da un’arringa animalista del tutto fuori luogo), il bruttissimo inciso melodic-core di “Animatronic Bionic”, l’apocalissi a buon mercato delle ugole lacerate di “Fetus. Carcass.”…

A tal proposito, mi sono fatto un’idea sul melanoceto della copertina: sta solo sbadigliando.

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