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R Recensione

7,5/10

Lento

Anxiety Despair Languish

L'unica band italiana (dalla Città Eterna) ad essere sotto contratto con la Denovali, torna con la terza prova in studio dopo la perfetta coppia d'assi dei primi due lavori. Three Of A Perfect Pair, verrebbe da dire. E la citazione non sembri peregrina: sussite infatto una spiccata affinità elettiva con le accidentate latitudini destrutturanti dei King Crimson che furono. Certamente i Lento perseguono un sentiero rinvenibile, senza eccessivo rischio d'errore topografico, lungo traiettorie post metal. Tuttavia i loro percorsi espressivi, specialmente oggi in questo “Anxiety Despair Languish”, travalicano la stretta ragion d'essere di un sentire puramente “post”. Il rallentamento di riff e ritmi, il ricondurre il rumore ad una valenza “ambientale”, il controllare in modo mirato le esplosioni fanno parte della cifra stilistica della band romana. La violenza sonora ammanta in modo preponderante la pelle della musica dei Lento. Nel nuovo album questa viene convogliata in articolate congetture capaci di destabilizzare ogni pacificazione estetica. La batteria e il basso, nel loro viscerale e tumultuoso incedere, mutano continuamente, mentre le chitarre s'insinuano come un liquido che scorre voluttuoso ed abrasivo, dentro canali sospesi e tortuosi, capaci di sfidare le regole della gravità.

Anxiety Despair Languish”, pur nella sua oscura ispirazione, è un lavoro di prorompente luminosità: un album che non deve essere gustato a tappe, ma bevuto tutto d'un fiato senza pensare che sia costituito da singoli episodi. La materia musicale è una e indivisibile: la transizione da un capitolo all'altro è solo un passaggio obbligato che tuttavia non condiziona minimamente la grande coerenza delle idee sonore veicolate. Certamente alcune fasi focalizzano i sensi in modo del tutto speciale e dunque possono essere evidenziate. “Death Must Be The Place” con la chitarra che pare intenta in un sermone, mentre intorno una estasi ritmica assedia l'anima: poi tutto tace inquietamente per un po', fino all'assalto finale struggente e implacabile. “Questions And Answers” è un altro di quei momenti nei quale la bellezza del congegno messo a punto dai Lento si rivela in tutta la sua spaventosa bellezza: cerebralità e istinto si danno convegno, in uno dei brani più geniali del repertorio del gruppo da cui prorompe uno slancio ascetico in vista di una apocalisse imminente. La pace notturna di “Blackness”, quasi dal sapore jazzy, reca un attimo di sollievo in un viaggio a perdifiato su irti pendii. La title track, fra lirismi di chitarre ed irruenze di batteria, segna uno dei punti cardinali della visionaria poetica dei Lento, subito sacralizzato dalla successiva “The Roof”, con i suoi incombenti venti di tempesta. L'ambient-noise della introspettiva “Inwards Disclosures” rivela ulteriori dimensioni sensoriali, aprendo la strada alle evanescenze disturbate dell'immensa “Unyelding /Unwavering”, prima della sontuosa arringa finale di “My Utmost For His Highest”, in un crescendo maestoso eppure sempre fluido.

Una epicità del tutto singolare quella della formazione di Federico Colella (batteria), Emanuele Massa (basso), Lorenzo Stecconi e Donato Loia (alle chitarre), abile nell’oltrepassare con creatività e genialità, ogni insidia di virtuosismo fine a se stesso: pur attraverso tutti gli stratagemmi messi a disposizione dal "genere" a musicisti dall'elevata preparazione tecnica, i Lento non si rendono affatto disponibili a farsi ingabbiare in alcuna prigione dorata, sviluppando un personalissimo dialogo con le proprie muse (senza alcun bisogno che questo si tramuti in canto), che non abbandona mai la volontà di comunicare con cervello, pancia e anima, erigendo un imponente ponte di collegamento fra queste tre entità. Va segnalato il supporto dato ai synth da Paolo Tornitore, che permette ad alcuni brani di acquisire maggiore spazialità.

Difficile immaginare una analoga catartica eloquenza in qualsiasi altra band che, su questi stessi scoscesi territori (di puro furore strumentale), cerca di cimentarsi: i Lento hanno imparato a intarsiare finemente la roccia più dura e monolitica, senza trasfigurare la natura della pietra originaria, ma sapendola addomesticare alle proprie arti manipolatorie. Questi quarantuno minuti sembrano durare una eternità in virtù della ricercatezza e dell'intricatezza con cui ognuno dei meandri portati alla luce si disvela. Oltre gli Isis e gli Omega Massif, al di là dei Cult Of Luna e dei Baroness, i Lento (discendenti non troppo ossequiosi dei Neurosis), sono oggi più maturi di quello che hanno dimostrato con i due precedenti “Earthen” (2007) e “Icon” (2011), stabilendo con “Anxiety Despair Languish” un nuovo dominio sull'ovvio e sulla tradizione. Mi piace pensare che il metal possa, nelle sue aspirazioni più alte, riconoscersi, rigenerarsi e ridefinirsi in un album così.

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Voto degli utenti: 7/10 in media su 3 voti.
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C Commenti

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firstvalley (ha votato 7,5 questo disco) alle 17:54 del 4 novembre 2012 ha scritto:

Inwards disclosure è uasi come come una colonna sonora di un viaggio verso Giove costellato di violente variazioni cormatiche( scena di 2001 odissea nello spazio) e pare di sentire alla fine del brano Hal9000 dire: Siamo alla seconda parte del disco!! non trovo altre similitudini , veramente una sorpresa made in italy

Marco_Biasio (ha votato 7,5 questo disco) alle 12:28 del 18 novembre 2012 ha scritto:

Tutto mi aspettavo, fuorché un disco del genere. Davvero strano ed atipico, per poter "appartenere" pienamente ad un solo genere. I segmenti ambient di "Icon", lavoro peraltro non eccelso, già avevano fatto presagire qualcosa al riguardo, ma una crescita così esponenziale, nel giro di poco più di un anno, è entusiasmante. Per me, tutto sommato, c'è poco di doom e ancor meno di post qui dentro. La musica dei Lento si barcamena ora tra storture cacofoniche, sontuosi excerpts di black metal sinfonico (una vena sempre sottesa, ma che qui esplode, basti ascoltarsi la clamorosa "Death Must Be The Place" e le sue architetture acide, caracollanti, come se i Solefald avessero suonato nella cattedrale di San Isacco coi Pentagram) e tensioni ambientali di raffinata eleganza. Aspetto a votare perché vorrei ascoltarlo ancora un po'. Di certo, comunque, tutta un'altra band. E avvallo anch'io la tua speranza finale, Stefano, pur sapendo che comunque ciò già avviene, in certa misura.

Marco_Biasio (ha votato 7,5 questo disco) alle 20:18 del 26 novembre 2012 ha scritto:

Eheh, ho deciso da che parte stare: 7,5 anche per me. Un disco notevolissimo, specie se paragonato ai suoi due modesti precedessori. La scrittura, persa come già detto tra storture invidiabili, ardite sinfonie ed armonizzazioni tese all'evocativa abrasività del black ed alla cervellotica contorsione del prog, sembra quasi quella di un altro gruppo. Ci sta anche il paragone lato con i Crimson degli anni '80, specialmente per l'inanellarsi dei rivolgimenti di melodia e la costruzione dei singoli riff. Nota di merito per il basso, letteralmente strabordante ed elemento in grado di fare la differenza (si sente che Lorenzer è lo stesso tecnico del suono degli Ufomammut...). Certo, c'è molta curiosità da parte mia di capire come un disco così complesso possa essere riprodotto decentemente dal vivo... Voto come migliori brani del lotto "Death Must Be The Place", "Blackness" (praticamente gli Opeth di "Blackwater Park"), la title-track, il riff sordo di "Underbelly" e la conclusiva "My Utmost For His Highest".