Long Distance Calling
Trips
Con lo sguardo smarrito nel vuoto, un togliattiano (ma anche un berlingueriano, suvvia: non saremo così severi) si chiederà, davanti al partito unico della nazione, come è stato possibile arrivare fino a quel punto senza che nessuno, o quasi, si sognasse di muovere una pur minima obiezione. Increduli e stupefatti, davanti a Trips, gli affezionati dei Long Distance Calling di Avoid The Light e in misura minore del successivo s/t non potranno non interrogarsi sul simile destino che ha travolto, impietosamente, la più fulgida delle nuove promesse del post rock strumentale, dissoltasi nel nulla proprio sul procinto di spiccare il volo della gloria. Le pur numerose imperfezioni, da noi prontamente rilevate, che attanagliavano la manovra ed inquinavano il disegno complessivo dei precedenti full lengths (circoscriveremo: dal 2007 al 2011), manifestandosi in tutta la loro problematicità nel debole The Flood Inside (2013), non sono da sole sufficienti a spiegare e motivare le dimensioni del fiasco che abbiamo di fronte.
Trips è un fallimento su tutta la linea, mix fatale di pressapochismo, disomogeneità ed incanutimento. Per trovare un pezzo degno del passato del quartetto di Münster (nuovamente in assetto da basso, batteria e doppia chitarra, con la new entry Petter Carlson alla voce) bisogna passare attraverso trentasei minuti di cristallino vuoto pneumatico, di impietoso accanimento terapeutico: arriva poi Flux, una lunga esplorazione post metal che, in gemmazione progressiva da un set di arpeggi à la Opeth, si regala una lenta carburazione, tra divagazioni zeppeliniane, insistiti dark wave e arrangiamenti rotondi. Segno che la capacità di graffiare, come un tempo, non si è persa, ma è stata soffocata da vacui orpelli ed ambizioni ingiustificate: i synth carpenteriani dellorrendo AOR dapertura (Getaway, con ogni probabilità una outtake dellEP di raccordo Nighthawk), i Pineapple Thief di Lines mortificati da un agghiacciante ritornello speed-power, la melensa ballata pianistica di Rewind, le ruggenti distorsioni di Trauma che arrivano a sconfinare nel nu metal, le pacchiane sfrondature di archi sintetici in accompagnamento allhard rock cotonato e senza picchi di Plans (cè qualcosa nelle chitarre, questa volta, che richiama certo tech metal strumentale di anni recenti, pur non arrivando alle esagerazioni masturbatorie del genere), una linearissima Reconnect che sembra strappata al magro songbook degli ultimi Biffy Clyro
Per alzare di almeno mezzo punto una votazione altrimenti impietosa, fate in modo di recuperare la deluxe edition. Accanto allarena prog di Escape (meno peggio di quanto possa suonare di primo acchito, se si eccettua quel ritornello sconclusionato) troverete Echo: che non si inventa nulla, siamo daccordo, ma nel suo riverniciare di post metal elettronico le strutture futuristiche dei Radiohead di Ok Computer rappresenta un più che dignitoso commiato. Alquanto deprimente, me lo concederete, terminare su queste note meste una recensione che avrebbe dovuto essere di tuttaltro tenore ed entusiasmo. Something is broken around there
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