Neurosis
Given To The Rising
Recensire l’opera dei Neurosis è impresa che costa sempre fatica e comunque mette a disagio.
Sorta di solipsistica “Termopili” che rischia di lasciarti spossato e insoddisfatto, con uno scabro sapore di sabbia in bocca e la sensazione di non essere riuscito a restituire appieno la magmatica, ostica complessità musicale proposta dal gruppo.
Penetrare all’interno del loro mondo criptico ed ammaliante significa perforare strati e strati di fortilizi gotici e pietrosi, dissipare atmosfere sonore cupe e raggelanti con la sola forza di una fervente liturgia iniziatica. D’altro canto, però, se davvero si vuole comprendere l’evoluzione della musica estrema nell’era del post (rock, core, metal), da questo viaggio non si può prescindere in alcun modo. Dopo oltre vent’anni di carriera, infatti, il gruppo di Oakland ha ormai completato la costruzione di una weltanschaung così oscura e totalizzante da abbracciare pressochè tutte le influenze più disturbanti in auge nella musica alternativa: l’elenco di stili e definizioni, seppure ridotto all’osso, risulta comunque spiazzante e sterminato oscillando fra l’hardcore delle origini e lo sludge metal (doom più hardcore, per intenderci, parente prossimo dello stoner), dal dark ambient e l’industrial di fine anni ’80 al drone, senza dimenticare la velenosa pozione di “apocalyptic folk”, psichedelia e crust punk infusa come vernice ai pochi fregi lasciati incustoditi dall’impressionante struttura architettonica.
Pertanto inviterei gli amanti delle storiografie lineari e delle discografie consigliate a intraprendere la marcia di avvicinamento al nuovo Given to the rising (Neurot, 2007), soffermando i propri passi su tre tappe fondamentali: 1992, Soul at Zero, pietra angolare dello sludge, massimo punto di fusione per metal e hardcore oltrepassato il quale ci si ritrova immersi in un oceano di lava radioattiva destinata a corrugarsi in una nuova era geologica;1996, Through silver in blood, la Stonehenge del post core, un rito pagano in cui dolore, guerra e purificazione rasentano l’orlo del precipizio dell’ignoto; 2004, The eye of every storm, l’avanguardia di una nuova spedizione, l’Anabasi del drone, l’estenuata eleganza di una fuga onirica che si sposa con i fraseggi oscuri e parossistici del pericolo imminente.
“La nostra musica è come una guerra. Una guerra dell’anima per qualsiasi cosa sia vera e genuina in un mondo in cui tutti cercano di imitare qualcun altro”, rivendica Steve Von Till, cantante, chitarrista e portavoce della band. Classico esempio di persistenza nel tempo, Given to the rising è la cronaca allegorica della condizione dell’anima in un inferno post-apocalittico, fra roghi di sacre scritture, falsi idoli e prigioni di barbarie e fanatismo.
Un ritratto prospettico ma non statico, tutt’altro: la tetralogia iniziale (Given to the rising, Fear and sickness, To the wind e At the end of the road, quasi una suite in quattro movimenti) cadenza un’ascensione scoscesa che dalla Caina conduce alla superficie terrestre fino a rivelarci, una volta raggiunta, che la luce intravista non era affatto quella del sole ma solo il riflesso dell’abbagliante precipitato dell’ultima guerra batteriologica.
Fra lisergici rumori di fondo, ragnatele di feedback al quarzo e scalate “sabbathiane” a pareti ritmiche di puro basalto, I Neurosis marciano decisi sul dorso di un dolmen affacciato su uno scenario da incubo, “sceneggiato” come se fosse l’equivalente musicale di una sequenza de “L’esercito delle 12 scimmie”. Il trip pre-agonico di un Prometeo incatenato alla roccia della follia e dell’oscurantismo, assediato dai mostri del Goya che ne digrignano gli ultimi palpiti da un cuore stremato.
Eredi di Conrad e Senofonte, i Neurosis, tuttavia, sanno fin troppo bene che laddove coraggio e fatica sopravvivono può ancora rinascere la speranza ed in effetti Shadow si trasforma da atto unico alla Ionesco a maieutica drone che illumina l’entrata della caverna platonica. Ristoratosi al lungo sonno della ragione il gruppo si avventura di nuovo all’esterno scortato da una trilogia che inaugura la seconda parte del disco: Hidden Faces, Water is not enough e Distill marcano l’ingresso in un universo amniotico, vestigia della creazione o estremo rifugio dell’inconscio collettivo. Pare già di udire il sibilo assordante di una cascata, fonte simbolica e componente primigenia, attutito dal dedalo di piante marcescenti che la rinserra in una jungla di cobalto.
La marcia è lenta, spossante ma inesorabile e quando la sorgente assume i contorni ormai liquefatti di un miraggio, i ruggiti del cantato si fanno sempre più sporadici e rarefatti, la trance/ipnosi di Nine introduce un parlato che ha i toni del buio deliquio di un Kurz che nemmeno in fin di vita può scacciare “l’orrore...l’orrore!” dalle pupille sfiorite.
Per fortuna Origin compare come l’Ellepsonto ai prodi sbandati di Clearco, intonando nell’epilogo un’invocazione apollinea tesoriera dell’annunciazione di una nuova (palin)genesi. Given to the rising resta un lavoro spaventoso, della cui reale portata ci si accorgerà probabilmente solo nei prossimi cinque o dieci anni;per il momento, più modestamente, il sottoscritto si limita a collocarlo al fianco dei tre migliori capitoli dell’imponente ciclo epico-rituale del gruppo.
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