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R Recensione

6/10

Pelican

Forever Becoming

Per gli albatros di Baudelaire, il destino aveva in serbo scherno ed umiliazione: sempre meglio di quanto pensato da Coleridge, ma tant'è. Il tonfo creativo dei Pelican di “What We All Come To Need” riuniva, in sé, la vergogna del primo e la drammaticità del secondo evento: un cadavere alla costruzione delle grandi opere. Non poteva certo funzionare, e difatti non ha funzionato. Una macchia che, se osservata retroattivamente, si staglia ancora più impietosa e disturbante: la cruda fotografia del decesso di un gruppo e di un intero genere. Se le ali dei Pelican si fossero in quell'occasione tarpate, avremmo potuto noi stessi imbarcarci in altre e simili analogie. Il gruppo, tuttavia, ha deciso di continuare la propria (dis)avventura, rimpiazzando il grande – ma ormai appannato – riffmaker Laurent Schroeder-Lebec con Dallas Thomas, e facendo anticipare il quinto full lengthForever Becoming” da un EP, “Ataraxia/Taraxis”, tutto sommato senza troppe pretese.

Vertiginosamente, criticamente discendente era la china toccata dal quartetto chicagoano: troppo, per sperare anche solo in uno scatto di reni – del riscatto vero e proprio, per amor di decenza, non parliamo nemmeno. Eppure, consci della palese inutilità di scavare ulteriormente in un terreno ormai divenuto del tutto arido e sterile, per un attimo i Pelican sembrano trovare la soluzione adeguata: alleggerire i pilastri ritmici e semplificare gli incroci strumentali, in virtù di un approccio molto meno metallico del consueto. Non inganni il vigoroso dipanarsi, lontanamente tooliano, di “Deny The Absolute”, dove la consueta scrittura plumbea è traforata da specchi di luce riflessa, similarmente a quanto già sperimentato dai Long Distance Calling del terzo disco omonimo: inoffensiva è pure la corazza di “Immutable Dusk”, che presto si spalanca in un romantico crescendo arpeggiato d'altri tempi, e preziosa è – al netto del manierismo – la stasi pittorica di “The Cliff”, dove la sezione ritmica disegna scorci anche più mozzafiato di quella chitarristica. La “ricetta”, se così può essere definita, non consente di raggiungere chissà quali vette, ma sembra poter garantire qualcosa di buono.

È bene che l'incertezza prevalga sull'apprezzamento. “Forever Becoming”, che vive comunque di una mediocrità a tratti stereotipata, non è – prevedibilmente – costruito con omogeneità. “Terminal” solleva una nube di distorsione flemmatica e catalettica, con le friggioni del basso dissestate da un impiego soldatesco, guerresco dei tom: poi tutto si accartoccia su sé stesso, come mai sarebbe accaduto in “The Fire In Our Throats Will Beckon The Thaw”, e un modesto dialogo tra sei corde è quanto rimane esposto a nudo. “Threnody” è, d'altro canto, l'episodio più vicino alla sconfinata grandezza epica del songwriting dei tempi d'oro, con riff in sovrapposizione parziale e dissonanza tangente, flanger cosmici, cellule matematiche deorbitate e attratte dal blocco principale: sforzo ammirevole, non fosse per un finale da Sehnsucht gestito veramente male. Incredibile è, poi, la dolcezza di “Perpetual Dawn”, arrangiata con piglio quasi orchestrale e senza guizzi personali infiorettata – ritornano in mente i Belanov di “Paragraph”, e non è un bel ricordo.

Hanno provato a svoltare, non ci sono riusciti. Il capitolo precedente era impresentabile, questo è un disco onesto: ma di onestà si può anche morire.

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