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R Recensione

7/10

Pelican

Nighttime Stories

Quando ci si appresta a parlare di un disco variamente post (rock, metal, -core…) la buona etichetta del recensore esige una dissertazione paternalistica (sempre la solita) sui rischi e i problemi di scrivere e suonare musica morta dieci, o erano quindici?, probabilmente venti anni fa, anzi, subito dopo “Spiderland”!, comunque finita, sepolta, tramontata per sempre. Ammesso e non concesso che abbia ancora un senso rimarcarlo, va a finire che nel flusso di luoghi comuni, oltre a perdere di vista l’oggetto del disquisire, ci si dimentica dell’importantissimo rovescio della medaglia: se l’abuso di stilemi di genere conduce alla noia e al conseguente disinteresse, un alleggerimento della pressione mediatica può altresì favorire la messa in circolo di nuove idee, il risorgere di nuovi stimoli. Quanto a de profundis artistici i chicagoani Pelican ne sanno qualcosa (nonostante siano già trascorsi dieci anni, la ferita di “What We All Come To Need” brucia ancora), ma il lento cammino di risalita della china ha, libero da ogni aspettativa, dato i suoi frutti. Sebbene vergare pagine immortali come quelle del vecchio “The Fire In Our Throats Will Beckon The Thaw” (2005) sia oramai impossibile, il sesto lavoro lungo “Nighttime Stories” (coprodotto dal prezzemolino Sanford Parker e dedicato alla memoria del frontman dei Tusk, Jody Minnoch, scomparso improvvisamente nel sonno nel 2014) è un’affermazione massiccia.

Il focus è sulla sezione chitarristica: alla seconda prova in tandem, dopo il discreto capitolo precedente (“Forever Becoming”, 2013), le sei corde di Trevor de Brauw e Dallas Thomas hanno ormai raggiunto un’ideale alchimia. Se i riff portanti di alcuni brani risultano immediatamente memorizzabili nella loro semplicità (assolutamente paradigmatico quello della conclusiva “Full Moon, Black Water”, una lineare frase heavy dall’allure vagamente Katatonia), il vero lavoro di miniera si compie tra gli interstizi, nelle fughe strumentali e nelle trame secondarie che, con effetto pittoresco, si abbarbicano le une sulle altre, arricchendo senza sforzo apparente scheletri minimali. Il poderoso singolo “Midnight And Mescaline” è una versione volumetrica degli ultimi Long Distance Calling, tra lick di chitarra da guitar hero e spianate di doppia cassa: “Cold Hope”, dalla sua, maneggia con sicurezza le dissonanze chiaroscurali, doppiando in abrasività i Russian Circles di “Guidance” ed aggiungendovi una spiccata propensione al solismo. Il post metal progressivo della title track, infine, media il primitivismo della costruzione melodica con distoniche spizzate black, quasi macchie di inchiostro, coni d’ombra su una taiga innevata.

Nessuna invenzione radicale, insomma, ma svariati ottimi spunti sì (si ascolti l’epico sludge formato Megadeth di “Arteries Of Blacktop”), con, in più, un tacito sentore di Ringkomposition che, dall’intelligente apertura di “WTS” (arpeggi acustici, steel guitar e piano contrastati testa a testa da bassi distorti e tamburi marziali), filtra attraverso il suburban western à la Red Sparowes di “It Stared At Me” e confluisce nella già citata “Full Moon, Black Water”, conclusa da un magnifico ed etereo epilogo blues-gaze. A fine ascolto il cuore forse non sobbalza più, ma ad aprirsi inequivocabilmente sul volto è un sorriso estatico.

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