Pelican
What We All Come To Need
La sensazione che si prova nellascoltare lultimo volo dei Pelican è quella di chi si guarda allo specchio e scopre, sgomento, di vedere riflesso nientaltro che il vuoto. Persino i contorni, dapprima così curati e livellati, ora appaiono confusi, annacquati, irriconoscibili. Ciò che appena quattro anni fa, con il gioiello chilometrico The Fire In Our Throats Will Beckon The Thaw, sembrava materiale ultraterreno, libero di librarsi in aria, cangiante e multicolore, scevro da quel propellente manieristico che già cominciava a pulsare nelle vene e nei ronzii di City Of Echoes, di due anni successivo, si vede adesso costretto a serrare al proprio corpo ali rattrappite da una fastidiosa zavorra autocelebrativa: una roulette russa, un bungee jumping senza corda che molti gruppi del genere, Isis in primis, hanno recentemente affrontato con coraggio e cuore in gola, consci della difficoltà dellostacolo proposto. Laddove lì si riconosceva di fatto, però, un impegno volto a ricercare, più che il ribaltone concreto della proposta, la differenziazione delle sfumature in essa disseminate, su questa sponda non fa altro che accrescere il rimpianto e linfinita sequela di dilemmi.
Che la favola post-metal avesse lasciato scorrere i titoli di coda finali sulla propria sfolgorante ed innovativa calata era conclusione palesatasi già da qualche tempo: le migliorie apportate in seguito altro non hanno fatto, nella maggior parte dei casi, che prolungare lagonia di una formula il cui midollo era stato strizzato sino allirreversibile necrosi. Eppure, seppur relative, si trattava di decisioni audaci: disperate, certo, prosaiche e démodé, più affettive ed egoistiche che altro, ma non prive di una loro eleganza. What We All Come To Need è, perciò, doppiamente fastidioso: un disco totalmente classico e stereotipato, a tratti perfino macchiettistico, ripieno di cliché, arrivato nel culmine della crisi, quando servirebbero nuove idee, nuova linfa, nuovo carattere. Un colpo di pistola dritto al cuore, anziché una benda riparatrice. La noia prevale in maniera netta e costante sulle trame chitarristiche, sulle esplosioni di feedback, sui ricami di arpeggi: è un copione pesantissimo, prevedibile sin dal primissimo attacco ed autofago nel suo voler mantenersi sempre ed esclusivamente uguale a sé stesso. Cinquantuno minuti, in cui i Pelican non smettono di suonarsi addosso, lasciandosi scivolare sopra una nota dopo laltra. Nel 2003, con un Australasia già incorporato nel curriculum, si sarebbe parlato di grande riconferma: nel 2009, micidiale doppietta desordio ed interlocutorio terzo capitolo, il dissenso non può che essere netto e definitivo.
Per cosa strapparsi i capelli, daltronde? Lo sconforto è tale che nemmeno le dissolvenze mediorientali di An Inch Above Sand, riprese integralmente, sprovviste di modifiche, dalla più lunga Last Day Of Winter di The Fire In Our Throats Will Beckon The Thaw riescono a sollevare una benché minima ondata di sdegno. Lautoplagio, quando non così spudorato ed esplicito, si può cogliere nella totalità dei passaggi degli otto movimenti di un corpus mai così indifendibile. Glimmer alterna sprazzi di luce rarefatta a momenti in cui scorre torrenziale limpatto di uno sludge antidiluviano: Strung Up From The Sky è una costruzione fra le più consuete, come se ne sono sentite a dozzine, anche nettamente migliori; in unottica generale, il riff in contorsione di Ephemeral, per quanto misero, rimane il solo vessillo da poter sbandierare. Spaventa una devoluzione così rapida, una discesa tortile negli abissi delloblio perpetuo a cui i ragazzi sono destinati, se non riusciranno a trovare presto una soluzione a questa completa perdita didentità. Decadenza, peraltro, che si acuisce con la title-track, esercizio compendiario vacuo ed irritante, e con Final Breath, unico pezzo cantato ed esalazione mortale, a passo doom, di un requiem telegrafico.
La cosa di cui avremmo tutti bisogno, a ben pensarci, sarebbe unicamente più onestà intellettuale.
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