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R Recensione

7/10

threestepstotheocean

Migration Light

Tra un necrologio e un coccodrillo, le statistiche sono (ancora) dalla parte del post metal: per dieci, venti, cento dischi di genere immessi sul mercato, è pressoché impossibile che almeno uno, per quanto stereotipato, non sia d’alt(r)o livello. La ruota, nel 2011, sorrise ai novaresi Orbe, autori di uno straordinario “Albedo” passato criminosamente sotto silenzio (e che, dal nostro punto di vista, meriterebbe ormai un sophomore). Un giro dopo l’altro, separati da quattro anni e migliaia di ascolti, l’ago della bilancia pende sulla stessa regione: sorpresa doppia, perché i milanesi threestepstotheocean esordienti non sono e next big things, al netto della percezione personale dell’underground, nemmeno. La ragione della segnalazione sta nella differenza qualitativa che, intrinsecamente, separa il materiale del recente “Migration Light” da quello dei full lenghts precedenti, “Scents” (2012) e “Until Today Becomes Yesterday” (2009): una faglia che separa il buono, finanche l’ottimo, dal discreto proprio della sola ordinarietà.

Lo scatto di copertina, semplice e geniale, trasforma radicalmente un grigio skyline cittadino in uno specchio d’acqua post-industriale, una pozza impenetrabile e dunque ingannevole (che i ragazzi si siano studiati la cover di “…And The Circus Leaves Town”?), un paesaggio metafisico segmentato da chimere, privo di punti di riferimento. Gli accordi di americana riverberata e spettrale di “Dust Bowl” (una risposta tricolore a drcarlsonalbion? Un rimando a certa Squadra Omega?) fissa propriamente questo spaesamento, questa sconfinata emptiness che, volendo, potremmo anche chiamare Unheimlich: sotto le chitarre fioriscono infatti i sibili, i field recordings, i ronzii di mosche impertinenti, il rimosso che riemerge in superficie. È, allora, non solo vuoto, ma addirittura avvizzito, finanche in decomposizione, il corpo al centro dell’analisi della band (l’immaterialità di “Wooden Shelter” ha un che dei Red Sparowes). Il requiem funebre, ça va sans dire, segue a strettissima distanza, con la flebile danza pianistica di “Sulaco” a farsi strada tra barriere elettriche e i congegni semoventi, a più marce, di “I End” (il dinamismo nei cambi di tempo e la plasticità dei riff possono richiamare i Lento). Sono i dettagli ad imporsi e a far valere la candela (la slide ruggente in “Sur”): per chi conosce a memoria le progressioni post metal, infatti, qualche frangente potrebbe suonare superfluo – particolarmente esposta all’usura è l’iniziale “They” che, nonostante l’accelerata centrale in blast, sembra una sinfonia sludge scritta con gli occhi dei Pelican. Rischi del mestiere, come tali conosciuti e calcolati. Grande è la soddisfazione, giunti al termine del viaggio, di ritrovare un po’ del calore sudista degli Across Tundras negli specchi di cristallo di “Primordial Leavers”.

Consigliamo, a quanti si fossero decisi a provare il disco, di abbinarlo con altre due felici uscite dell’anno: “Sistere”, degli olandesi Izah, e “Dust And Disquiet”, degli statunitensi Caspian (peccato non poter suggerire, in ambito post-brutal death, il nuovo Ulcerate, in uscita nel 2016). Avrete così in tasca una bella tripletta e una fedele fotografia di come, anche a 2015 oramai trascorso, si possa onorare la tradizione, senza per questo cadere nel gorgo dei cliché. 

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