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R Recensione

8/10

Ulver

Wars Of The Roses

Sapevamo che sarebbe stato arduo dare un seguito a quella gemma di evanescente bellezza di “Shadows Of The Sun” (2007). Sapevamo anche che gli Ulver, non avrebbero realizzato un nuovo album senza aver individuato un tragitto illuminato da una nuova stella. Senza il bisogno di salvaguardare alcuna tradizione, senza la necessità di rendere sicura la strada del viaggiatore. Nessun sentiero è emozionante se percorso due volte, con lo steso stato d’animo: gli Ulver come scelta non si rifiutano di tornare anche sui propri passi (quelli di “Blood Inside” del 2005), nei propri spazi, ma cercano di farlo avendo trovato un nuovo modo di guardare e di camminare, rendendo anche abbastanza inedito il sapore delle atmosfere attraversate.

Ci si addentra a “Wars Of The Roses”, in parte con il timore che l’incanto non si ripeta, che gli Ulver siano più terreni che “out of this world”: ma la realtà che sottende alla verità è che gli Ulver sanno essere vicini, vicinissimi e allo stesso tempo impalpabili, intangibili. Così, non bisogna farsi trarre in inganno dai due brani (l’iniziale February MMV e England) che, presi separatamente dal contesto musicale, indurrebbero a pensare ad una brusca interruzione di egemonia negli aspri territori così orgogliosamente conquistati, lasciando in bella vista varchi d’accesso che in passato sarebbero stati maggiormente celati. February MMV messo lì come incipit è un impeto primordiale che trae energia da una melodia ammaliante quanto obliqua e da un tappeto di corredo che parrebbe appartenere, addirittura, agli Archive o agli Air più smaccatamente prog. Anche England si insinua tra cigolii e misteri svelati. Ma Norwegian Gothic cala già la maschera: e ciò che si cela dietro resta una bellezza di sfuggente catalogazione, che affascina proprio in quel suo ritrarsi: la strada si fa impervia e la parte melodiosa si inerpica su quelle che sembrano improvvisazioni di chiara matrice crimsoniana (anni di grazia 73-74), proprio nella metamorfosi di Norwegian Gothic nell’immane Providence (proprio come il brano dei King Crimson su “Red”). Providence è una vertigine senza fine, che prende d’assedio l’anima e la protegge mentre si affaccia dalla balaustra di una scala marmorea spiraleggiante che più si innalza e più lascia sprofondare nell’oscurità la sua origine. Ascesi sopra lo smarrimento: bisogna guardare in alto senza badare ai gorgoglii e ai crepitii che il baratro emana.

La magnetica Semptember IV è un altro culmine di un album perfettamente riuscito nel suo dipingersi di in(de)finito: ancora avvolgenti le melodie avviluppate in un turbinio psichedelico, prepotentemente elettronico sebbene sostenuto da una batteria concreta e vitale. Sacrale e tellurico. Quello che avrebbero potuto essere i Porcupine Tree se Steven Wilson non si fosse autocompiaciuto nel ruolo di ammaliatore di masse, divenendo, dopo un percorso iniziatico sulle orme di un ipotetico Ermete Trismegisto musicale, un alchimista pago di usare la propria scienza naturale solo per stupire con effetti da illusionista. La tribale Island concentra il proprio esercito di nuvole sopra un terreno glabro e spazzato da un vento al quale possono sopravvivere solo le inquiete creature che si agitano sulle sabbie senza tempo: gli Ulver sono sonici pellegrini che, con la loro intima ma solenne crociata, si dirigono alla volta di tempio fatto sorretto da colonne in grado di congiungere i centro della terra con le alte sfere celesti. Chiude “Wars Of The Roses”, la lunga riflessione di Stone Angels (quasi un quarto d’ora), nella quale la recitazione dell’omonimo componimento del poeta trascendentale Keith Waldrop si intreccia ad una musica annunciatrice di celestiali dimensioni occultate, dalle nebbie del tempo, all’umana comprensione. Una musica rivelatrice che riecheggia le entità emozionali evocate da David Sylvian in “Alchemy: An Index Of Possibilities” (1985) o nelle ampie distese strumentali presenti in “Gone To Earth” (1986) : non si tratta di vaghe similitudini, ma di affinità strutturali dello spirito, evidentemente radicate nella natura metafisica di entrambe le vive materie sonore. Provate a far seguire l’ascolto di questa Stone Angels, quello di Steel Cathedrals del vate del Kent. Angeli di pietra, cattedrali di acciaio: se non è contiguità questa... Anche il santino del profeta Michael Gira deve avere un posto speciale, sull’altare privato degli Ulver, davanti al quale i norvegesi officiano le proprie orazioni. Non a caso l’album è stato mixato da John Fryer (Depeche Mode, Cocteau Twin e Swans, appunto). Ma se i risultati di queste preghiere si manifestano in inni così ispirati, che continuino pure nelle loro peregrinazioni devozionali: “Wars Of The Roses” è tra i misteri luminosi più abbacinanti di questi mesi.

 

 

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Voto degli utenti: 6/10 in media su 4 voti.
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Teo 8/10
KSoda 7/10

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