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R Recensione

7/10

Valerian Swing

Nights

Delle involontarie e pertinenti associazioni mentali. Ascolto da mesi, ad intervalli regolari, il giustamente celebrato quarto disco dei Valerian Swing, “Nights” (primo con in formazione la chitarra baritona di Francesco Giovanetti, rimpiazzo del bassista Alan Ferioli), e mi rivedo allo specchio, alle prese con la svolta electro – o, per meglio dire, con l’adattamento – dei Three In One Gentleman Suit di “Notturno”. In entrambi i casi, una band che avrebbe precedentemente avuto tutti gli elementi per piacermi proprio non riusciva a conquistarmi: in entrambi i casi, a marcare la necessaria discontinuità, un lavoro non in linea col resto della produzione. Curioso, per non dire altro, il fatto che entrambi i dischi in questione condividano ben più della mera provenienza geografica (una cinquantina di chilometri dividono Finale Emilia da Correggio) e della semplice suggestione semantica del titolo, che pure è indicativa del prevalere di un certo mood – atmosferico, stratificato, pensoso.

In “Nights” l’enumerazione dei quantificatori associati agli oggetti che danno nome ai titoli degli otto pezzi è progressiva, quasi a suggerire una narrazione a matreška che, muovendo dagli esiti parziali raggiunti nel precedente segmento, aspira a raggiungere un’unica meta finale. La suggestione è solo parzialmente rispettata: se la roboante estetica à la 65daysofstatic dell’iniziale “A Leaf” trova effettivamente una sua coerente evoluzione nella successiva “Two Ships” (che attacca come i Red Sparowes di “At The Soundless Dawn”, prima di scivolare in una heavy-nu-gaze coronata da un’ascesi screamo), la consequenzialità viene a mancare già dall’avvolgente inciso ambientale di “Three Keys”, atipica introduzione al cesellatissimo electro-math di “Four Horses” (come catturare gli Aucan a cavallo tra il s/t d’esordio e il secondo “Black Rainbows”). Non che sia un problema sostanziale, visto che alla verticalità subentra un’eterogeneità che ha dello stupefacente: le astratte costruzioni vocali che trasfigurano la polpa dream post metal di “Five Walls”, l’epica un po’ caciarona di “Six Feet” (nelle cui vene scorrono, tuttavia, fiotti di post-blues isolazionista), le zoppie emo di “Seven Cliffs” (esaltate in un galoppo conclusivo in cui si risentono i fraseggi schizoidi degli Adebisi Shank) e le folate Boards Of Canada di “Eight Dawns” compongono un filotto che, seppur ancora imperfetto (certi slanci bombastici andrebbero un po’ contenuti), ha quasi dell’incredibile.

La densità magmatica eppure lievissima del suono, il rinnovato interplay del power trio, il felice amalgama di influenze: di dischi come “Nights”, in Italia, ce ne sono ancora troppo pochi.

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