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R Recensione

5/10

Vaura

Selenelion

Mi assillano, da tempo, due grandi dubbi amletici. Il primo: riuscirò a vivere abbastanza per vedere la morte di Andreotti? Il secondo: riuscirò a vivere abbastanza per veder dato a Dio ciò che è di Dio, e a Toby Driver ciò che è di Toby Driver? Altro che bazzecole, insomma. Il folletto tuttofare di Boston è il classico esempio di musicista che paga a caro prezzo la scelta di vivere la propria professione (lo sarà poi davvero?) attraverso quell’assoluto coraggio sperimentale che solo e proprio è delle menti particolarmente acute, di chi mastica paradigmi nell’intenzione di distruggerli e di dare vita, a suo modo, ad una Gesamtkunstwerk del ventunesimo secolo. Ogni panegirico che pretendesse di tracciare morti e risurrezioni del metal moderno dovrebbe, obbligatoriamente, citare Driver come artista che, in prima persona, ha spostato i limiti stilistici della musica pesante ove nessuno, dopo di lui, ha ancora avuto la costanza, il fegato e la lucidità di spingersi. Dobbiamo ai maudlin of the Well l’esegesi del metal non metal, della distorsione che in una frazione di secondo diviene flauto, intensa emozione, stilla acustica, gattonare jazz, wall of sound e strapiombo death senza perdere, nemmeno per un istante, la propria coerenza. Frutti di un pensiero alieno, immaginifico sicuramente, che non è riuscito a ritagliarsi uno spazio altrettanto prominente – ché di incisività, vista la scarsa propensione critica al chiacchiericcio, si può parlare solo in teoria – nei Kayo Dot.

A quanto pare, tuttavia, la generosità di ottantasette fan sparsi per tutto il mondo, che con le loro donazioni via PayPal erano riusciti a mandare alle stampe – tre anni orsono – un preziosissimo disco di reinterpretazioni e riarrangiamenti (si fa per dire…), “Part The Second”, non è bastata a garantire ai motW qualcosa in più della semplice rimpatriata celebrativa. Tant’è che, a distanza di qualche mese l’uno dall’altro, sono arrivati prima “Gamma Knife”, sesto parto sulla lunga distanza per i Kayo Dot e, successivamente, i Vaura. Supergruppo? Collaborazione estemporanea? Confronto tra geni? Chiamatelo come volete. Driver, al basso fretless, sceglie di essere accompagnato da una line up di tutto rispetto, da pura deferenza per chi mastica da tempo avant-metal e dintorni: ad una chitarra Kevin Hufnagel, sciamanico tessitore di partiture math-core (definizione data giusto per semplificare e non annoiare) in Gorguts e Dysrhythmia, all’altra Josh Strawn – che si occupa anche dell’intera varietà delle parti cantate – e dietro le pelli Charlie Schmid, già in Religious To Damn e (ta dah!) Secret Chiefs 3.

Inevitabile che da incontri incrociati di tal fatta dovesse nascere qualcosa di perlomeno notevole. Notevole, già… Che cosa c’è, di davvero notevole, in “Selenelion”, musicisti a parte? Le premesse, sicuramente: quelle di ridare linfa ai fondamentali post metal, strizzati e sunti fino al midollo negli schemi e nei meccanismi, con strumenti ed espressività eminentemente rock, passando attraverso il condotto di quel black metamorfico ed umorale che si sta, giustamente, guadagnando la stima e l’ammirazione anche dei non addetti al settore per la sua spiccata, innaturale propensione sovversiva. “Souvenirs”, anche, che piazza strofa e ritornello (splendidamente cantati) su un magma di mobili percussioni jazzate e chitarre ondivaghe, tra complessi movimenti in arpeggio, stratificazioni shoegaze e retrospettive psichedeliche. Altri, svariati momenti di accecante oscurità, apparente ossimoro discutibile formalmente ma non concettualmente: impressiona, rispetto al passato, la qualità quasi trascendentale, asettica, candida della luce timbrica che inonda ogni frammento di “Selenelion”, resa matericamente con una sovrapposizione tonale incessante e senza vuoti attorno, che fa sembrare, per contrasto, ancora più foschi e profondi i rannuvolamenti cromatici; un calcio alla sommarietà ed un elogio all’eleganza creativa. Davvero belli i passaggi atonali di “Drachma”, tipici della poetica dell’antagonismo “inglobato” di Driver, i sintomi heavy-psych manifestati dallo scheletro acustico di “The Zahir” – prima del conclusivo collasso noise dove le sei corde si giustappongono, con infernale cacofonia bicefala –  e l’arcana evocazione post-black di “Obsidian Damascene Sun” (Alcest meets Jesu meets art rock per basso in libertà) con interpolazione di segmento heavy old style.

Non si riesce ad essere davvero soddisfatti, però, di un disco che vive esclusivamente di segmenti, attimi, frammenti, seppur difficilmente obliabili, e che si limita, per il resto, ad annegare la propria ragione d’essere entro limiti di quella che, dopo numerosi ascolti, appare sostanzialmente una sola idea. L’impressione che regna sovrana è quella della classica montagna che ha partorito il topolino: sui generis, il districarsi tra le molteplici influenze e le innumerabili variazioni di sfumature suona rugginoso, poco fluido, non sufficientemente plastico (la doppia cassa che entra a comando sui toni epici di “The Emanation” è, esteticamente, brutta), non aiutato da un ventaglio sonoro ricco ma statico, fisso sulle consuete soluzioni di alternanza e ricarica (le staffilate pesanti in sequenza nella poliedrica “En/Soph”, i Pyramids sognanti e noiosi di “Relics”, l’involuto prog acustico della title-track). Si arriva al traguardo dei cinquantacinque minuti con il cervello scarico e con niente di, come avevamo detto?, certo!, niente di notevole in testa.

Detto tra noi, personalmente, vorrei davvero vedere riconosciuti, un giorno, i meriti di Toby Driver. Ma con ben altri progetti.

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