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R Recensione

7/10

Zu

Goodnight, Civilization [EP]

Thereby hangs a tale, c’è tutta una storia da raccontare. Oceani metatestuali sul perché e il percome la più internazionale – e blasonata – delle band tricolori, orgoglio italiano all’esterno dato ormai per morto e sepolto (e rimpianto, ed esequiato, e, e, e…), fucina per eccellenza del genere-non genere del globo disintegrato post-9/11 sia, in realtà, tornata in azione. Sugli strascichi di questo comeback, su una scelta del tutto inaspettata che si prospetta gravida di conseguenze, su come gli Zu verranno ad interferire nell’immediato nel nuovo percorso musicale che si erano aperti perlomeno Luca Mai – con gli eccellenti Mombu – e la new entry, il tentacolare Gabe Serbian dietro le pelli, discuteremo a tempo debito, guardando negli occhi un full length ora impossibile anche solo da immaginare.

I primi dodici minuti di autografi in cinque anni – anziché no – del trio italo-americano si materializzano nell’istantanea mefistofelica che sottrae l’ossigeno all’atmosfera plumbea, opprimente di “Goodnight, Civilization”. Uno scatto sfuocato, indistinto, misterico, catturato dal californiano Tony Santoloci nel villaggio amazzonico dove Massimo Pupillo ha trascorso gli ultimi nove mesi della sua esistenza. Lontano dalle chiacchiere, dal rumore, dallo stress. Dall’elettricità. Dalla frenesia. Dalla civiltà. Non poteva non nascere dal profondo dell’universo, dalla magmatica periferia del mondo, quello schianto abissale che apre la title-track e ne connota marcatamente gli sviluppi. Sono Zu diversi, quadrati come sempre (se non di più), eppure dotati di una nuova capacità descrittiva, tangenzialmente post metal, capace di elevare a paradigma la sapiente bilancia di chiaroscuri di una “Chthonian” e di rivestire di acciaio bollente i poliritmi africani su cui si scatena la genialità e l’inventiva di un sofisticatissimo Serbian (“AOTKPTA” al cubo). Il carattere viscerale e sommamente cupo dell’asset strumentale – in questo senso, il campionamento di una vecchia prefica pugliese ricorda le struggenti nenie funebri che fungevano da interstizio nel monumentale “Thanatology” dei Dead Elephant – si riverbera anche nella successiva “Silent Weapons For Quiet Wars”, un’affilata cannonata (quasi) Fear Factory infestata dai fantasmi voodoo, sottilmente groovy del baritono di Luca Mai.

Quasi ci si duole di arrivare alla sciamanica rilettura, del tutto dispensabile, di “Easter Woman” dei ResidentsBarney Greenway dei Napalm Death a latrare dietro il microfono). “Carboniferous”, metabolizzato, si è evoluto in qualcosa di altro. Ma che cosa? Ascoltiamo, ancora, e meditiamo.

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