Crystal Antlers
Tentacles
Ci ho messo mesi a decidermi definitivamente sui Crystal Antlers. Capolavoro o disco mediocre? Davvero innovativo o la solita pappa? Quesiti apparentemente semplici per un seppur modesto fruitore di musica come il sottoscritto. Eppure ci ho messo davvero un sacco di tempo a “leggere” tra le righe di Tentacles, lp d’esordio di un gruppo che si era fatto conoscere un anno prima con un ep (prodotto da Ikie Owens dei Mars Volta) in cui si faceva largo la monumentale Parting song for the torn sky, neo-psichedelia noise devastatrice allo stato puro. Una roba talmente fica da generare importanti attese nel sottoscritto (e non solo, visto l’hype presente nel web).
Quando infine esce questo Tentacles lo ascolti e rimani un po’ spiazzato perché ti aspettavi qualcosa in simil-Liars e decisamente più indirizzato nella direzione fatta intravedere nell’ep. Senti che è una cosa che richiede attenzione, gliela dai, fai scorrere il tempo, concedi ascolti su ascolti, e alla fine capisci che il disco è un fottuto capolavoro. Una di quelle pietre vitali che ciclicamente da ormai cinquanta e passa anni riescono a portare il rock ad uno stadio ulteriore, smentendo in continuazione quelli che ogni tre per due danno il genere morto e sepolto. Certo, ovvio che ogni volta che si avanza verso l’ignoto ci si sposta un po’ di più dalla base di partenza, e infatti un disco come Tentacles ha ben poco di quello che può evocare la parola rock. Ma è per questo che amiamo etichettare tutto con termini nuovi come post, new, e trattini vari a collegare i generi più disparati.
E allora eccoci qua, a parlare di un disco eccezionale che pur guardando molto al passato appare sorprendentemente orientato verso il futuro.
Si è detto in giro che i Crystal Antlers sono nient’altro che dei nuovi Mars Volta, oppure sono l’ennesima riproposizione un po’ più energica del robusto garage psichedelico dei ‘70s.
Ovviamente smentiamo sia l’una che l’altra proposizione. Oddio in realtà c’è un fondo di verità in queste due affermazioni, ma sembra più corretto dire che i Crystal Antlers sono quello che i Mars Volta avrebbero potuto essere se si fossero rivolti a un suono più ordinato e melodico (guardando per l’appunto anche al garage-psichedelico di una volta) invece di lanciarsi verso abissi di tecnicismo prolisso e sterile. Eppure è netta la sensazione che si vada molto oltre. Lo si capisce fin da subito con l’apertura strumentale Painless sleep, una fulminante esplosione sonica tra post-punk e psichedelia alla Oneida.
È con Dust però che troviamo bene elencate le caratteristiche principali del gruppo: hammond in primo piano, cantato appassionato, strozzato, tragico e un mix stilistico che poggia sostanzialmente su un post-core iper-tecnico ma contemporaneamente epilettico e casinaro. Come se la sofferenza dei Cursive si mischiasse al furore dei primi Mars Volta e alla voglia di far caciare di Human Eye o Comets on Fire.
Il punto è che non c’è uno schema fisso e difficilmente ci si ritrova con due brani uguali. Così già Tentacles è un hardcore per certi versi talmente post da diventare prog con le continue variazioni di tema che propone (e qui davvero sembra di sentire esclusivamente i Mars Volta).
C’è poi la componente post-punk che si ritrova nelle strutture ipnotico-circolari dominate dalle tastiere della memorabile Memorized (siamo qui dalle parte dei Mae Shi) o nel calderone Time erased, in cui si ritrovano incestuosi raccordi tra psycho-prog, math-rock e noise urlato.
Ci sono poi le sublimi “ballate” Andrew, Until the sun dies (part 1) e Swollen sky. La prima recupera schemi hard-rock ‘70s impastandoli di low-fi e tastiere tra splendide alternanze di pieni/vuoti ritmici e acustici. La seconda è un “lento” completamente seppellito dalle tastiere richiamanti le atmosfere floydiane tipiche di E. Wright. In entrambi i casi emerge un sublime senso del romantico che degenera nel secondo brano in un turbinio space squisitamente decadente. Swollen sky sfrutta una maggiore libertà compositiva ed esecutiva e merita il pallino d’oro di qualità per il finale impetuoso e sovrastante.
Il resto sono pillole sparse che vanno ad arricchire un sublime dipinto: lo shoegaze cosmico (in stile No Age o My Bloody Valentine, a scelta) di Vapor trail; lo schizzo free di Your spears; e quella Glacier che spogliata delle asprezze noise sembrerebbe quasi un brano dei Genesis più concreti…
Infine Several tongues che riprende loop elettro-cosmici da cui emerge progressivamente l’ennesimo gran bordello noise in un finale che puzza di evidente omaggio alla L.A.Blues degli Stooges.
E quindi? Quindi niente, solo un altro fottuto capolavoro tirato su da sei ragazzi della California. E vogliamo concludere questa recensione soltanto con i loro nomi, pensando che un giorno saranno famosi (o forse no, chi lo sa? In ogni caso se lo meritano): Kevin Stuart (batteria), Damian Edwards (percussioni), Andrew king (chitarra), Johnny Bell (basso, voce), Victor Rodriguez (organo) e Errol Davis (chitarra).
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