Fuh
Dancing Judas
La cosa più clamorosa è sapere che abbiamo una scena noise-core davvero eccezionale in casa nostra e nessuno sembra essersene accorto. In Piemonte i Fuh sono ormai una realtà di primo piano e si affiancano a gruppi come Putiferio, Sant’Antonio Stuntmen, Io Monade Stanca, Ruggine, Butcher Mind Collapse e via dicendo. No dico, una scena noise-core a due passi da Torino e tutti a perdersi dietro alle banalità pop dei Baustelle o all’indie raffazzonato degli A Toys Orchestra.
E poi ci perdiamo l’essenza della vera musica passionale e violenta (in maniera delicata) come quella prodotta da gruppi di livello come Dead Elephant, Fine Before You Came e Altro. Ma allora diciamocelo che noi italiani siamo ontologicamente scemi, e che certe volte al posto della cioccolata ci piace mangiare la merda, così almeno ci togliamo una volta per tutte ogni speranza che in questo paese si riesca ad istituire non dico un governo decente o una coscienza civica minima, ma anche solo uno spirito critico realmente capace di scavare in profondità del fenomeno artistico in sé.
Una volta si diceva (a torto) che l’underground coincideva con quanto di meglio potesse offrire la musica. Si sbagliava, però almeno si centrava parzialmente il bersaglio e non ci si faceva sfuggire grandi artisti e band abbandonate dal sistema mass-mediatico dominante. Oggi invece ci si rifugia in un underground solo fintamente tale, scelto non per la sua diversità estetica e qualitativa, ma unicamente per moda, per mancanza di sbattimento, per comodità.
Gli Uochi Toki qualche anno fa hanno inquadrato perfettamente un atteggiamento che non vale solo per l’ascoltatore passivo analizzato da Adorno, ma anche per buona parte degli appartenenti alle cosiddette sottoculture: “tu ascolti un pezzo, un disco o un gruppo, se e solo se lo ha minimamente nominato o apprezzato qualcun altro: l’interesse non nasce da teee, l’interesse non nasce da teee!” concludendo in bellezza che “tu sei uno stronzo perché non ti sforzi di andare oltre al brutto”. Ecco non mi spingo a tal punto dal condividere l’insulto nei vostri confronti, che peraltro se state leggendo questo testo fate parte di quell’élite di ascoltatori che svolge già una certa approfondita ricerca musicale. E per questo andate lodati, ovvio.
Ma dopo l’increscioso e inutile filippica è necessario andare al dunque, e ricordare che maggiore lode ancora meritano i Fuh, che avevamo già imparato a conoscere e apprezzare con il piccolo gioiellino Extinct di un paio d’anni fa. Anche perché se è lodevole riuscire ad essere dei buoni ascoltatori ancor di più lo è essere dei buoni musicisti, in grado di rimanere artisticamente onesti e innovativi.
Dancing Judas conferma le doti del gruppo che non si è limitato ad affinare il proprio stile figlio del post-core di Fugazi e Unwound ma ha introdotto nuovi elementi (sprazzi di elementi wave) e portato avanti il progetto di coniugare un sound robusto e vigoroso con un’estetica discendente alla lontana dal mondo indie (vedi soprattutto Distance, peraltro uno dei brani più difettosi del disco), con risultati più che proficui. Se Grandine apre colpendoti in testa come un mattone sonico (tra riff pesanti al limite dell’heavy, danze indiavolate, chitarre taglienti e infuocate e un cantato pressochè perfetto nel suo stampo adeguatamente urlato), la successiva Four things mette in mostra strutture melodiche pop che accompagnano una ritmica roboante, su cui ballano impalcature fumose e incastri sferraglianti.
È un post-core molto ammorbidito ma ancora potente, che ricorda vecchie glorie italiane come Three Second Kiss e classiconi indie-core del calibro di Superchunk e Archers of Loaf. È qualcosa di seriamente imponente Dancing Judas, che sfrutta partenze poderose come quelle di Miniver (la cui purezza devastatrice dell’attacco iniziale, ripetuto con furore per quei primi memorabili 55 secondi è impagabile) e digressioni che spaziano tra attitudini post-rock in visita presso terre dedite al culto wave-noise (Quarter).
Altro notevole pregio è quello di risultare estremamente compatto pur essendo assai eterogeneo, sommando fughe di psichedelia liquida (Canalese landscape: titolo leggendario) e forme labirintiche e geometriche più tipiche di un certo math-rock alla Don Caballero, da cui ci si lancia verso il recupero di istanze melodiche indie-classiche (Gordon, rest in peace) o tuffandosi in una nebbia industrial-wave di fumi psichedelici da cui si esce tamburellando violentemente. In ogni caso qualcosa di notevole e autorevole. E forse è il caso di rendergli la giusta lode non trovate? Non facciamo fare a questi ragazzi la fine che hanno fatto trent’anni addietro gli eroi di Pordenone, che ancora aspettano la giusta rievocazione gloriosa!
Tweet