R Recensione

6/10

Les Savy Fav

Let's Stay Friends

Leggendo sui ‘noti’ canali informativi le recensioni del disco e gli articoli sulla band, si percepisce chiaramente il manto di ‘good vibrations’ e di equanime benevolenza che alimenta il tramestio attorno a ‘Let’s stay friends’: si capisce che, bene o male, tutti cercano di fare la propria parte per dar man forte nello spintonamento per la conquista di un posticino al sole stretto tra la valanga di uscite perlomeno meritevoli che ogni mese inondano il mercato (nonchè le nostre orecchie).

Per quanto ci riguarda, era del lontano 2001 che si attendeva il successore di ‘Go forth’, e la prima impressione che si ricava dall’ascolto del quarto album della band di Brooklyn è quella di trovarci al cospetto di un disco elettrizzante, come di regola in linea con quel suono che dalla Dischord di Fugazi e Nation of Ulysses si è frazionato in mille rivoli, generando poi formazioni come Jawbox, Q and not U, Dismemberment Plan, Smart Went Crazy, nonché tutto lo ‘tsunami’ emo della prima ora di etichette come Jade Tree e DeSoto, e, se vogliamo, una buona fetta del cosiddetto math-rock.

Succede però, con il ripetersi degli ascolti e lasciata scorrere qualche settimana di ‘decantazione’, una cosa assai strana: i quaranta minuti scarsi dell’album non vengono assorbiti, non ‘si attaccano’, insomma non si innalzano dal mare sonoro quotidiano a mò di appiglio emozionale, come invece ci si attendeva: in altre parole ‘Let’s Stay Friends’ contiene una manciata di innegabilmente valide canzoni, affogate in un contorno di riempitivo, che seppur ben confezionato, rimane pur sempre mero riempitivo, ‘melina’, per dirla alla Bruno Pizzul.

Tipo quando in certi ristoranti presentano quei piatti baroccamente elaborati e curati nella forma, ma che lasciano ancora con la fame una volta consumati.

La colpa, se cosi la vogliamo mettere, è del traguardo che i quattro sembrano essersi prefissati di raggiungere: quello, parafrasando il titolo, di rimanere buoni amici con i propri estimatori volgendo allo stesso tempo lo sguardo altrove alla ricerca di nuovi, e possibilmente numerosi, consensi.

Per non fraintenderci: la stima finora conseguita sui palchi di mezzo mondo con concerti tra i più indisponenti e ignoranti che la storia del ‘rock’ ricordi rimane eterna; tuttavia questo persistente ammiccare per agganciare il più vasto pubblico possibile, per una band di questo rango può risultare controproducente, con il rischio sempre presente di composizioni perse in mezzo al guado.

E pensare che solo a leggere l’elenco dei nomi che compongono il ricco parterre di collaborazioni del disco veniva l’acquolina: si và da Eleanor Friedberger, vocalist dei grandi Fiery Furnaces,a Toko Yasuda degli Enon (freschi di stampa con un nuovo lavoro su Touch & Go), da Nick Thorburn degli indie-rocker Unicorns, a Emily Haines dei Metric per l’occasione al piano, mentre a dar manforte alla batteria troviamo Joe Plummer dei Black Heart Procession e Fred Armisen. Una vera e propria parata di stelle del sottobosco statunitense.

Insomma, aprire l’album con due tracce come ‘Post & pans’ e ‘The equestrian’ non fa esattamente lo stesso effetto che aprire con ‘Tragic monsters’ ,o, per fare un altro esempio, con ‘The sweat descends’.

Perché l’open track è un pasticcino dolce dolce che parte trasognata su tabulati di emozionalità Shout Out Louds per finire in disperati vocalizzi che ricordano da vicino certo revival New Wave inglese, altroché chitarre come lame a scintillare nel buio e nervi a fior di pelle.

‘The equestrian’, secondo singolo estratto, ha dalla sua un cinetismo post-hardcore tipicamente washingtoniano, ma come alterato da un cazzo di chitarrone distorto e da una produzione nel complesso eccessivamente fracassona e ‘maschia’, quasi grottesca per quanto riguarda la voce: per quanto mi riguarda uno superfluo sfoggio di muscoli.

‘Let’s stay friends’ sembra volere riprendere le redini del gioco nel falsetto antiapocalisse della guizzante ‘The year before the year 2000’, nel singolone ‘Patty Lee’ che, ci scommetto, diverrà una hit invernale per molti club col suo feeling da dancefloor puro (si pensi ai compianti Q And Not U di 'Power'), nei Tv on The Radio in paranoia Public Image di ‘Brace yourself’; nel refrain instancabile di ‘Kiss kiss is getting old’ che invoglia a riconciliarsi con i vecchi Samiam.

Questo è ciò che rimane in mano con il passare del tempo, le restanti tracce vanno dalla vergogna (‘ Coes & goes’) a meline che manco la Epitaph (‘Raging in the plague age’), o peggio ancora, all’anonimato.

 

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Voto degli utenti: 6,7/10 in media su 3 voti.
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