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R Recensione

7/10

Minsk

With Echoes In The Movement Of Stone

Il post-core, oggi. Da una parte i maestri incontrastati, i Neurosis, a capo del movimento – non a caso, guardate bene – da ben più di un decennio, senza mostrare tangibili segnali di cedimento (“Given To The Rising”, 2007, ci dice che “Through Silver In Blood” è irraggiungibile, ma che a suonare sono sempre loro). Arrivano poi gli allievi: anzi, i primissimi allievi. E, oserei dire, anche i migliori della classe: gli Isis. Che da un paio di prove non stanno convincendo granché, e paiono di essere, se non al capolinea, sufficientemente vicini. Il loro tentativo di golpe ai danni dei pedagoghi è riuscito perfettamente con “Panopticon”, ma l’onda d’urto si è smorzata in seguito, restituendo la legittimità del regno a chi di dovere. Quindi viene tutta la schiera di discepoli (apostoli è un po’ troppo, non credete?): chi si limita alla fotocopia, chi alza il tiro, chi lo disperde nella psichedelia. Un copione, a dire il vero, lacero e frusto. Solo alla fine è il momento di chi, a guardar bene, qualcosa da dire ce l’ha ancora. Puntiamo il riflettore sui Minsk.  

La capitale della Bielorussia forse non sarà così felice di tornare alla ribalta grazie ad un gruppo metal, ma è il caso di dire che, in quanto a connubio suono/immagine, il quartetto americano è riuscito a legare in una più che apprezzabile maniera. “The Ritual Fires Of Abandonment”, di appena due anni fa, viveva al suo interno scelte sonore già coraggiose: strumenti etnici, congas, effettate – o efferate? – distorsioni che, a lungo andare, si perdevano però nel classico, possente impasto post-metal di prima generazione. “With Echoes In The Movement Of Stone” è il salto decisivo che permette al gruppo di ambire ad un posto in prima classe fra i “pasionari” del genere, gente senza timore di osare o scoprire carte magari bizzarre, ed altresì fondamentali per la sua sopravvivenza.  

Avrete notato come i toni, seppur tendenzialmente d’apprezzamento, non (s)cadano mai nell’entusiasmo. Questo perché, nonostante tutto, il disco non può dirsi assolutamente perfetto. Vi sono ancora molte cose da limare, correggere, deviare in altra direzione, al fine di acquisire pienamente i mezzi di un grande talento a tratti ancora inespresso, o soffocato da manierismi sterili e ciechi. “Three Moons”, for instance, investe l’ascoltatore con un sabba gelido, primitivo, una serie di bordate a testa bassa e corna in fuori, sciolte dopo in un tramestio di arpeggi e synth paradigmatico all’inverosimile. Decisamente meglio – e come non potrebbe esserlo? – con la successiva “The Shore Of Trascendence”, Electric Wizard dissolti in una spirale jazzistica (sentirete gong, tastiere, percussioni di ogni genere) che si lancia in dispendiose digressioni strumentali, a ritmi ovviamente tribali e mortiferi. Uno scarto nettissimo, che non può non insospettire per la sua bruschezza e che si ripeterà ancora, con proporzioni via via sempre minori, nel resto dell’album.  

In un’intervista, rispondendo ad una domanda sull’esistenza di un effettivo concept dietro la realizzazione del disco, il gruppo rispondeva: “Di base c'è dietro l'elemento della Terra e il ritmo. “With Echoes In The Movement Of Stone” è l'idea del suono e della melodia che si muovono attraverso una struttura stabile, solida. Quest'idea rappresenta potenza, passione e forza”. Non possiamo che essere d’accordo con le loro parole, anche se il rapporto, talvolta fisico sino alla vera e propria prepotenza, come nei deliqui esistenziali di “Pisgah”, si riveste di mistero in alcuni degli atti più intriganti, attraverso un manto di psichedelia estremamente elettrica e fumosa, espediente spesso abusato ma poche volte ricondotto ad una forma sostanzialmente valida, al contrario di quanto succede in “Consumed By Horizons”, basso abrasivo e lacerante in apertura con vista su un paesaggio di grande desolazione mistica, o nella preghiera sciamanica di “Means To An End” che, pur mantenendo uno strascico di fondo, cambia spesso abito.

È forse questa la chiave giusta per sbloccare gli ultimi difetti: togliere il piede dalla tentazione dell’acceleratore, coltivare l’introspezione più che l’esplosione, ed ampliare – come del resto i Minsk fanno bene – il parco strumenti, per raggiungere ampiezze e profondità altrimenti sottaciute. Facendo attenzione, ovviamente, a distinguere la differenza sostanziale che intercorre tra l’incubo cinetico ad occhi aperti (la bellissima “Almitra’s Premonition”, jam di oltre dieci minuti puntellata dai riverberi del sax di Bruce Lamont dei meravigliosi Yakuza) e lo sbadiglio tonante ad occhi chiusi (“Requiem: From Substance To Silence”, dagli spunti anche interessanti, ma evanescenti su una durata certo troppo lunga e frammentaria).

Non siamo ancora in alto, ma passo dopo passo ci stiamo avvicinando. Se vorrete dar loro una mano a raggiungere l'empireo, partite da qui.

 

 

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