Dredg
The Pariah, the Parrot, the Delusion
Ammetto che, con ogni probabilità, il nuovo Dredg era l’album più atteso del 2009, perlomeno per quanto mi riguarda. Grande infatti l’attesa e la curiosità per il disco che seguiva l’interlocutorio ‘Catch without arms’ uscito quattro anni or sono.. avrebbe soddisfatto le aspettative? E soprattutto, avrebbe riportato la band di Los Gatos sui binari dei fantastici, irripetibili primi due lavori, o piuttosto ne avrebbe certificato la stasi creativa, relegandoli nell’affollatissimo limbo di quelle bands da ‘2-3 dischi e stop’ e poi il nulla..?
Forse, a ben guardare, nessuna delle due cose. Nel senso che il disco presta il fianco a critiche ed elogi in – più o meno- egual misura (il classico discorso del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto, a seconda di come si decida di guardarlo). Forse…Ma andiamo con ordine:
l’album è un concept che si ispira al breve saggio "Imagine there's no heaven; letter to the 6 Billionth citizen" di Salman Rushdie. Il tema portante è la schizofrenia del mondo moderno, la lotta eterna tra scienza e religione, il tutto concepito sotto forma di lettera (ecco spiegato lo splendido art work di copertina) della quale i destinatari siamo tutti noi. Liriche mature e degne di una attenzione non superficiale, al servizio di tematiche tutt’altro che banali, dunque. Ma veniamo a ciò che più interessa chi legge una recensione di musica, partendo da una certezza assoluta: i Dredg sono bravissimi a scrivere belle canzoni, cosa che non è così scontata come si può credere (non sempre saper suonare significa necessariamente saper comporre..).
Accanto a questa certezza però, l’ascolto della prima parte del disco ne regala un’altra di segno opposto: ovvero, che fine ha fatto la band capace di scrivere ‘Leitmotif’ ed ‘El cielo’?
Nessun guizzo, pezzi più o meno anonimi e sempre più marcatamente pop-oriented; il capolavoro ‘El cielo’ viene palesemente richiamato per via della struttura del disco, dove brevi bridge giungono ad unire i vari brani del cd, ma peccano clamorosamente in termini di qualità ed inventiva. Tolta la traccia #3 la discreta Ireland, tocca aspettare fino ad Information – brano scelto quale primo singolo – per ascoltare una song davvero degna di nota. Pezzo piacevolmente orecchiabile e radiofonico, ma anche caratterizzato da accelerazioni e aperture melodiche degne dei loro giorni migliori. Peccato che poi seguano dei brani in tono minore (eufemismo) quali Saviour, I don’t know, ‘Gathering Pebbles’ etc. dove sembra quasi di ascoltare gli ultimi muse (e non è un complimento).
Ma quando lo scoramento sta ormai prendendo il sopravvento, ecco quello che non ti aspetti (non più, quantomeno): a partire dal ‘quasi funk’ di ‘Mourning this morning’ inizia un altro disco. Niente di cui strapparsi i capelli, probabilmente; ma comunque una svolta (in meglio) c’è finalmente!
Va da sé che la voce di Gavin Hayes è sempre un bel sentire, piacevole ed evocativa il giusto ma anche il songwriting torna ad essere ispirato in un finale di disco in continuo crescendo e caratterizzato da un filotto di ottimi pezzi quali "Quotes", la strumentale “Down to the Cellar”, e soprattutto l'eccellente "Cartoon Showroom", brano che secondo me rappresenta l’apice dell’intero lavoro e che ha poco da invidiare ai celebati cavalli di battaglia dei primi due albums. Resta, immota ed irrisolta, la questione posta in apertura: sono questi i ‘veri’ Dredg?
L’impressione, a conti fatti, è quella di trovarsi di fronte ad un lavoro disomogeneo e di transizione; in una parola, non è ben chiaro dove il gruppo di Gavin Hayes voglia andare a parare. E forse, allo stato attuale, non lo sanno nemmeno loro. Il tempo, che notoriamente è galantuomo, ce lo dirà. Dal canto mio, come dire… ehm, forse.. …Ecco.
Arrivederci Dredg e comunque vada, grazie di tutto.
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