Opeth
Heritage
Essere entusiasta e giovanile fan degli Opeth, tra la seconda metà degli anni 90 e lingresso del Nuovo Millennio, portava ad ascoltare ed amare incondizionatamente una serie voluminosa di dischi a cui persino la critica non specializzata si accostava con pieno rispetto e, in qualche caso, malcelata riverenza, per un modo totalmente nuovo, creativo e spontaneo di vivere il death metal attraverso irriverenza, illuminazione, inventiva. Una simbiosi raramente riscontrabile in un circolo di puro conservatorismo e tendenza alla fossilizzazione, come quello metallico: nella musica di quattro ragazzini svedesi qualunque confluivano lacustico, lelettrico, lo scartavetrante e il sofisticato, limpatto e la meditazione. Essere entusiasta e giovanile fan degli Opeth, oggi, significa appassionarsi ad una terza epopea di consumati maestri di stile che, non troppo indifferenti alle mode e al tempo che passa, hanno progressivamente (nomen omen) spostato lago della bilancia verso paesaggi sonici assai meno arrembanti e sublimi di quelli primigeni, facendo di conseguenza diminuire la soglia dinteresse specifico riservata a chi, di queste pietanze, non apprezza il gusto.
Watershed, tirato a lucido sino allultima nota, presentava allopinione pubblica un gruppo dalla facciata splendida e dagli evidenti segni di cedimento interno. Ci auguravamo potesse finire lì ma, come nel peggiore dei vaticini, il morbo ha preso più piede di quanto ci si aspettasse finendo, purtroppo, per degenerare. Opeth, nel 2011, è un marchio che ufficiosamente rispecchia, in realtà, il solo cantante e chitarrista Mikael Åkerfeldt, unico membro della formazione originale sopravvissuto alle traversie che, dal 2005 in avanti, hanno portato alla defezione del batterista Martin Lopez prima, del cofondatore e secondo chitarrista Peter Lindgren poi, della new entry Per Wiberg alle tastiere infine. La svolta autoritaria ed egocentrica potremmo quasi dire, estremizzando, il progetto personale da allora improvvisamente impressa al gruppo, mero aggregato di musicisti onesti ma dalla presenza scenica assai modesta e dalla personalità ancora minore, affonda ancor prima di iniziare, con il suo peso insostenibile, il disegno di Heritage, decimo lavoro in studio e, novità delle novità, primo disco classico interamente deprivato della potenza animalesca dei growl.
Poter realizzare musica altra senza laiuto delle proprie radici death, a ben pensarci, non è mai stato un grosso problema per gli Opeth, finanche più a proprio agio con le atmosfere soffuse ed i ricami di arpeggi: addirittura un intero capitolo della loro storia, Damnation, era stato predisposto come trait dunion ideale per sottolineare ladesione della band al pulito prog rock crepuscolare degli anni 70. Heritage, tuttavia, è qualcosa di profondamente differente, perché rinuncia agli elementi maggiormente estremi cercando, allo stesso tempo, di conservarne intatte spinta e propulsione, da appiccicare ad altri stilemi. Il compito sarebbe stato arduo ed estremamente spinoso anche per un complesso in piena forma e stabile sulle proprie gambe: cosa che, si sottintende, Åkerfeldt e compagni non sono. Come tre anni fa, per Porcelain Heart, tocca al singolo trainante The Devils Orchard illustrare il profondo stato di crisi in cui versa il songwriting degli svedesi: accartocciato giochino di legati su normali power chord, vacue contorsioni degne dei Dream Theater (non è un complimento), un paio di dissonanze messe quasi a caso e un oceano di tastiere a rattoppare i buchi.
Sembra, a tratti, che il declino più volte annunciato debba calare di schianto, innestando i presupposti per una tabula rasa pressoché completa. Slither è un hard rock zeppeliniano grossomodo innocuo, con tanto di enigmatica chiusura acustica che traghetta dritto dritto verso la doppietta Nepenthe frammentata da break funk e Haxprocess, introspettivo minimalismo blues dagli ombrosi risvolti dark, per quasi sola voce nuda, rotolare di spazzole e chitarra jazz, senza troppi sussulti. Il mestiere mediocre scivola nel patetico al sopraggiungere di I Feel The Dark, estenuante ballata acustica che sfonda nellelettrico con unimbarazzante fanfara, e della cavalcata andalusa di The Lines In My Hand, piatta nelle soluzioni e tenuta assieme da un fragilissimo collante. Fa ancor più rabbia rabbia riflettere su questi picchi negativi, perché è un tentativo, quello di offrire intere porzioni di connettivo musicale allibridazione etnica, in qualche caso davvero riuscito e, sui generis, molto vicino alle scelte radicali degli Orphaned Land, inconsciamente citati nellavanzare felpato di Folklore, un convincente esempio di nuovo crossover slittato verso un finale languido ed essenziale, ma soprattutto in Famine, una magistrale conduzione per pianoforte stritolata da deformi passaggi doom e presa a sberle da percussioni e flauti di Pan.
Prima delluscita del disco, su Internet si sono susseguiti i leak che portavano a fake, tracce incompiute, in alcuni casi veri e propri depistaggi. Tra di essi alcune perle di grande valore, come questa, originariamente indicata come title-track del disco e, a quanto sembra, ultima registrazione di Per Wiberg con la band. Inserita nella scaletta avrebbe potuto, da sola, rimettere in discussione da capo un intero giudizio. Qualcosa vorrà pur dire.
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