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R Recensione

6,5/10

Orphaned Land

Unsung Prophets & Dead Messiahs

Per molto tempo, ascoltando in ordine cronologico i lavori in studio degli Orphaned Land, mi sembrava di rivivere la medesima epopea negativa che aveva segnato l’ultima parte della carriera degli Opeth – un paragone non casuale che, se si scorrono gli articoli dedicati al complesso israeliano presenti nel sito, ricorre peraltro con una certa frequenza. La quasi trentennale carriera del quintetto di Petah Tikva può essere arbitrariamente suddivisa in quattro fasi. Primi passi ampiamente perfettibili, ma già spiccatamente innovativi (“Sahara”, “El Norra Alila”): il capolavoro della maturità, giunto a coronamento di un travagliatissimo periodo sociopolitico e quindi – data la particolare congiuntura del paese natio – personale (“Mabool”); la formalizzazione concettuale del suono, preludio alla china discendente (“The Never Ending Way Of ORwarriOR”); infine, lo svuotamento di senso e la stereotipata rivisitazione – qualcuno azzarderebbe “americanizzazione” – del proprio messaggio identitario, reso potabile e quindi innocuo (“All Is One”). Imboccata la via del declino, la creatura guidata dal padre-padrone Mikael Åkerfeldt non è più stata in grado di riprendersi: pensavo che lo stesso declino toccasse anche a quella di Kobi Farhi che, tra le altre cose, aveva dovuto incassare nel 2014 la dipartita del chitarrista e membro fondatore Yossi Sassi (quasi sulle orme dell’omologo Peter Lindgren che abbandonò la scialuppa, con risultati nefasti, alla vigilia delle registrazioni di “Watershed”).

Nel sesto “Unsung Prophets & Dead Messiahs”, invece, gli Orphaned Land tornano a marciare come un corpo unico, con piena comunanza d’intenti, stornando con vigore i sentori di side project personalistico che a tratti aleggiavano su “All Is One” (il prodotto, non a caso, del periodo in cui Farhi girava in tour l’America con un set acustico solista simile a un rabberciato sermone politico). Non tragga in inganno il solito, pomposo battage pubblicitario, che lo descrive come il capitolo più heavy mai scritto dal quintetto israeliano: i fasti di “Mabool” – disco lontano ormai quattordici anni – rimangono ancora irraggiungibili. “Unsung Prophets & Dead Messiahs” rassomiglia piuttosto ad un reboot ammodernato di “ORwarriOR”, con il quale condivide non solo struttura, articolazione ed opulenza di arrangiamenti (non bastano le dita di dieci mani per nominare tutti i musicisti aggiunti a cordofoni, archi e in qualità di coristi), ma anche un’esplicita fascinazione per il neo-prog wilsoniano (“All Knowing Eye”) che, a tratti, si spinge ad abbracciare le grandi ispirazioni, gettando ponti tra la classicità, la sua reinterpretazione moderna e il determinante elemento etnico (così va letto l’assolo di Steve Hackett nel contesto oriental-epic di “Chains Fall To Gravity”, una discreta suite appesantita da slanci operistici inutilmente roboanti).

Per il resto, è il consueto microcosmo à la Orphaned Land, un gargantuesco gioco ad incastri su più piani in cui trovano spazio frammenti di world music dall’ingombrante aura quasi sacrale (“Poets Of Prophetic Messianism”), scaglie di suggestivo e chiaroscurale etno metal (testo e musica di “Yedidi” sono adattati dall’opera del teologo sefardita medievale Yehuda Ben Šmu’el Ha-Levi), pacchiane esibizioni di bel canto power metal (“Like Orpheus”, che non a caso ospita le vocals aggiuntive di Hansi Kürsch, è la cosa più vicina ai Blind Guardian che gli Orphaned Land abbiano mai tentato), serrate danze folk confuse tra il vorticare di archi e chitarre (“In Propaganda”). Va riconosciuto che, rispetto al recente passato, l’acceleratore viene premuto più a lungo e più a fondo, anche se ai sublimi abissi death-doom che avevano reso grande “Mabool” vengono genericamente preferite strutture assai più agili (il growl stampato sul contagioso rifferama groove di “We Do Not Resist”, gli arabeschi crossover che contornano l’aggressivo featuring di Tomas Lindberg degli At The Gates in “Only The Dead Have Seen The End Of War”): unica eccezione al principio di sintesi è, paradossalmente, l’atto inaugurale, una potente ed elegante “The Cave” la cui narrativa progressive finisce al centro di un intenso, lirico fuoco incrociato folk-death, tra maestosi refrain polifonici e variopinte fughe chitarristiche.

Unsung Prophets & Dead Messiahs” è ben lungi dall’essere un disco perfetto: sicuramente tronfio, leggermente supponente, a tratti logorroico e, soprattutto verso la fine, inconcludente (a “Take My Hand” non bastano stacchi flamenco e iberismi acustici per liberarsi dagli spettri di uno strappalacrime anthem da stadio). Pur tuttavia si respira quell’aria di rivalsa, quell’accettazione finanche spavalda della sfida che, per riprendere il paragone d’inizio articolo, è stata espunta dal vocabolario opethiano degli ultimi dieci anni. Il periodo d’oro degli Orphaned Land è sicuramente alle spalle: il decoroso invecchiamento artistico, per fortuna, ancora no.

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