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R Recensione

4,5/10

Scale The Summit

The Migration

A step forward. Individuato il burrone, e corteggiatone a lungo il ciglio, gli Scale The Summit vi ci buttano dentro, a capofitto. Avevamo già pronosticato, nella peggiore delle ipotesi, che “The Collective” (2011) fosse un passo di transizione con il quale la giovane retroguardia conservatrice metallica, paradossalmente progenie di un decennio dichiaratamente anti-reazionario, intendesse portare a termine una “migrazione” (mai termine fu più calzante...) verso un manifesto estetico di grande pirotecnia e, pressato nel torchio delle mille influenze, deprivato di un contenuto veramente personale. Se nel terzo capitolo del quartetto statunitense, tuttavia, il rischio della devoluzione veniva sventato da un pugno di trovate francamente ispirate e da un senso della posizione armonica facile a sbilanciarsi (e a sbilanciarsi al momento giusto, s'intende), in “The Migration” il picco della montagna frana addosso, con rumore e violenza, al songwriting della band, ora spezzettato in frammenti non facilmente ricomponibili.

L'equilibrio tra l'omogeneità di scrittura e la discreta variatio ambientale teneva dignitosamente a galla “The Collective”, rilanciandone peraltro il respiro in più di un episodio. Il tasso tecnico di “The Migration”, aumentato spropositatamente rispetto al coefficiente già elevato del precedente capitolo, scaccia e disperde in mille direzioni la stratificazione sonora, cristallizzando il dettaglio nell'infinita serie di volée virtuosistiche che vedono contrapposti, in una tenzone infinita ed estenuante, le sette corde (!) di Chris LetchfordTravis Levrier. Ne risulta un appiattimento generale del platter, nel corso del quale nessuna specifica invenzione – messa al muro dalla giocoleria masturbatoria – riesce realmente ad emergere. È un peccato, al netto dei rimpianti, perché i quattro di Houston, Texas hanno dimostrato, in passato, di saper controllare l'esibizionismo personale, in virtù della resa complessiva. Qui l'azione di gruppo è comunque coordinata, ma non all'esaltazione di un compatto unicum musicale: è l'affermazione di un serrato torneo di individualità.

Lo shredding pulitissimo e matematico di “Atlas Novus”, excerpt di metal strumentale con ritmiche plastiche e arpeggi amniotici, flangerati, ad aprirsi in bolle descrittive tra un assalto e l'altro (la fusion dopata del Nuovo Millennio, o una riedizione del Buckethead solista, direbbero i maligni) si alterna così ai cocci aguzzi di “The Dark Horse”, fragorosa tempesta heavy con svisate dalle parti del Petrucci solista (echi di “Glasgow Kiss” qui dentro): il dinamismo di “Odyssey”, con i Dillinger Escape Plan meno arcigni che per un attimo – solo un attimo – imbrigliano le chitarre in una cella tech poi disgregatasi in un'impalpabile coda astrale, si risolve in una “Oracle” che, sorta onirica ed ondivaga, in una frazione di secondo viene spazzata via da un elaborato modello di riffaggio thrash. Sono sempre in movimento, gli Scale The Summit, come ai bei vecchi tempi: ma questo moto perpetuo, questa volta, non porta da nessuna parte. “The Olive Tree” cresce inarrestabile per tre minuti, prima di incunearsi in un fumettoso scenario alt-funk, con accordi pieni e definiti in alternanza con arpeggi, tapping e legati: “Narrow Salient” ha dalla sua l'impatto, ma naufraga sotto i colpi di una melodia sbilenca scolpita a suon di bizantinismi; la title-track si lancia sotto la molla di una fanfara circense, giocando di rimessa e tiki taka sino all'esplosione conclusiva.

In quaranta minuti sfila sempre la stessa canzone, infarcita di tecnicismi non petiti. Se resistete, meglio per voi. Ma questo, a casa mia, si chiama ancora tempo perso.

V Voti

Voto degli utenti: 7,5/10 in media su 4 voti.
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B-B-B 7,5/10
Lelling 7,5/10

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