System Of A Down
Toxicity
L'11 settembre del 2001, la potenza globale degli Stati Uniti d'America veniva colpita nel suo centro nevralgico. In appena due ora, due edifici storici come le Twin Towers venivano cancellate per sempre, per il fanatismo religioso di un gruppo di integralisti islamici che, seguendo i diktat del leader Osama Bin Laden, riuscirono a dirottare due Boeing per farli schiantare sui due grattacieli, mietendo migliaia di vittime.
Quel giorno, l'America si fermò. Non si riusciva a comprendere il perchè, non si riusciva a comprendere il come, non si riusciva a comprendere il dove. Ed in quel giorno, seppur parzialmente, arrivarono le risposte che gli americani cercavano. Mentre i pompieri scavavano fra le macerie dei colossi d'acciaio alla ricerca dei feriti e dei sopravvissuti, veniva partorito uno fra i più bei dischi del Nuovo Millennio, destinato a lasciare per sempre un'impronta ben visibile nella storia del metal. Quel giorno, gli armeno-losangelini System Of A Down, ignari della tragedia incombente, fecero uscire sul mercato mondiale il loro secondo album in studio, Toxicity.
E l'unica parola che riesce a spiegare questo disco è: capolavoro. Mentre il mondo veniva turbato ed offeso dall'attacco alle Torri Gemelle, una voce si ergeva in tutta la sua potenza ad urlare, in un climax crescente, come e perché gli USA fanno schifo. Una voce impossibile da ignorare. La voce dei Nostri. Una voce capace di superare ogni barriera, ogni pregiudizio ed ogni falso paraocchio esistente.
L'attacco è dato da una fra le più violente sfuriate mai realizzate dalla band, Prison Song: a subire il colpo sono soprattutto le prigioni statunitensi, veicolo di perversione e tossicodipendenza. Il fenomenale vocalist Serj Tankian riesce a fare di tutto: a sussurrare nell'incipit, a tirare fuori un growl feroce e spietato nel ritornello, a recitare ossessivamente, con convinzione freudiana e tono simil-robotico, le strofe, a cantare divinamente lo spartiacque a metà e fine canzone ("... for you and me... / oh baby, you and me!). Gli apporti dati dalla chitarra (Daron Malakian), dal basso (Shavarsh Odadjian) e dalla batteria (John Dolmayan) sono fenomenali: una tonnellata di taglientissimi riff esaltano la cacofonia gutturale di Tankian, mentre la gragnuola di colpi proveniente dalle percussioni (drumming particolarmente veloce e doppia cassa abilmente sfruttata) corona il tutto con una cattiveria formidabile.
La successiva Needles è un carillon sbilenco, dalle tinte hardcore, ad altissimo tasso esplosivo. Le strofe, sottolineate da un charleston incandescente, confluiscono potentemente nel ritornello, uno screaming dai toni alti, quasi elevato a cantato. La canzone si addolcisce brevemente, lasciando spazio agli acuti di Malakian, per poi furoreggiare nel finale, con un growl fantastico del vocalist. La terza Deer Dance si apre violentemente, con un giro di chitarra dal sapore industrial, per poi mantenere un tono pesante e sostenuto in tutto il suo andamento. Qua e là spuntano piccoli accordi orientaleggianti, a creare un ponte fra l'innovazione americana e la tradizione armena. Fantastica la seguente Jet Pilot: il prologo è dominato dall'urlo di Tankian (Wired were the eyes of a horse on a jet pilot / One that smiled when he flew over the bay) ed è seguito da una sorta di danza tzigana, ritmica e caucasica, interpretata alla perfezione dal volubile ricciuto cantante. Naturalmente, mai sedersi sugli allori: ed è di nuovo un alternarsi di screaming e melodia, prima del gran finale. X, aperta da una mitragliata percussionistica dai toni marziali, si rivela essere un editto ribelle, pungente e sarcasticamente amaro, con immancabili ruggiti e riff veloci a spuntare da tutte le parti.
Ma il culmine del disco e, secondo il mio modesto parere, dell'intera carriera, quasi decennale, dei SOAD si raggiunge con Chop Suey!, primo singolo estratto. L'arpeggio iniziale, leggero e malinconico, introdotto simbolicamente da tre colpi di bacchetta, dà il via ad un indomabile furore, che si esprime alla perfezione prima nel drumming preciso e pulito iniziale, poi nel binomio verso/riff delle strofe. Il ritornello a due voci, dolce e commovente, è cantato in modo elegante dal singer e dal chitarrista, mentre un inedito Odadjian provvede a creare in sottofondo raffinatissimi cesellamenti melodici. Con un epilogo strepitoso, che comprende citazioni dalla Bibbia (Father, into your hands / I commend my spirit / Father, into your hands / Why have you forsaken me / In your eyes / Forsaken me / In your thoughts / Forsaken me / In your heart / Forsaken, me, oh!) ed un cantato che rasenta la perfezione angelica. Dopo un intermezzo simil-cabarettistico con la divertente Bounce, soffocata sotto una montagna di accordi, dove invitano caldamente tutti i loro fan a provare l'esperienza del pogo nei live, arriva la trepidante Forest: una cantilena inquieta, ripetutamente incrociata con attacchi acidi, che trova una valvola di sfogo più che sufficiente in un ritornello addolorato e smanioso, retto in modo armonioso ed espressivo dalle doti vocali di Tankian.
È il turno di ATWA (Air, Trees, Water, Animals), un chiarissimo riferimento all'omonima famiglia fondata da Charles Manson. Questa volta, le strofe accarezzate vocalmente, con un minimalismo esteso alla sola chitarra, implodono con violenza e senza preavviso nel ritornello al tritolo, una miscela di cantato soave e screaming ferocemente diretto, in una continua ed azzeccata opposizione. E se Science è una filastrocca dai toni elettronici, con ripetuti inserimenti di allegorie islamiche (i Nostri, fra i riff e la doppia cassa, piazzano addirittura un coretto da muezzin), Shimmy è al contrario un pezzo vibrante, serrato, dai riff ibridi fra lo stile roccioso americano e l'originale versatilità mediorientale, con una grande ridondanza percussionistica. La dodicesima composizione, l'omonima Toxicity (secondo singolo estratto), è introdotta da un giro ipnotico di chitarra acustica, dalle risonanze magnetiche, un perfetto trampolino di lancio per esaltare le doti tecniche del buon Dolmayan, abile al controtempo quanto alla rullata veloce. Ma ancora una volta è Serj Tankian che fa la differenza: dolce e carezzevole nelle strofe, deciso, incisivo e determinato nel ritornello multietnico. E la rabbia metal trasuda da ogni poro: una cascata di spigolosi riff domina la canzone verso la conclusione, gradita e benefica.
Ci si avvicina alla conclusione: Psycho, dapprima cupa, misteriosa, quasi aliena, diventa prima simil- circense, poi funerea, poi ossessiva (Psycho, groupie, cocaine, crazy!), poi grezza e dura, poi melodica ed infine psichedelica, nel lungo assolo di Odadjian, in un continuo cambio di tempo e di ritmo. And last but not least, arriva una strepitosa Aerials, estratta come terzo singolo: una tastiera esoterica, un arpeggio realizzato da Malakian che si pianta nel cervello con la sua preponderanza balcanica, strofe a metà fra l'ira dei riff e la magica poesia del vocalism, attacchi ruvidi e veloci come una tempesta furtiva, mai paga e mai doma. Con un magnifico testo (Life is a waterfall / We're one in the river and one again after the fall), simbolico ed incredibilmente metaforico. A coronare il tutto, una ghost track strumentale, incisa assieme col grandissimo polistrumentista armeno Arto Tunçboyacıyan, ed intitolata simbolicamente Arto: un insieme di tamburi venefici, flauti di Pan, cori ascendenti, bottiglie di vetro percosse.
Non una caduta di suono, non una caduta lirica, non una caduta di stile. Un cd che sarebbe un eufemismo definire indispensabile. Pietra miliare del metal, e non solo.
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