R Recensione

8/10

The Jelly Jam

The Jelly Jam

Jelly Jam (che in italiano vuol dire gelatina di frutta) è un Side Project, un gruppo estemporaneo e provvisorio messo insieme da tre grandi musicisti americani provenienti da tre diversi gruppi ed arrivato, ad oggi, a produrre due dischi. L’album in questione è quello di esordio.

Una definizione adeguata di ciascuna delle tre personalità musicali coinvolte nel progetto Jelly Jam può essere la seguente:

_Il batterista newyorkese Rod Morgenstein non è solo un virtuoso del suo strumento, è proprio un grandissimo musicista, energico, preciso a livelli disarmanti, assolutamente eclettico (suo il posto dietro ai tamburi in act molto diversi quali i fusionisti Dixie Dregs ed i metal-melodici Winger)  ma anche creativo, emozionante, esaltante in sommo grado. È titolare della cattedra di percussioni al Berklee College of Music di Boston il grand’uomo, ed io lo ammiro sommamente.

_Il bassista corean/statunitense John Myung è invece un virtuoso e basta, purtroppo. Malato cronico di “bassistite”, è di quelli con lo strumento a tracolla sempre e comunque (anche subito dopo un concerto!...testimoniano i suoi compagni dei Dream Theater). Myung suona, suona, ma a me non arriva niente. Pure il timbro suo prediletto, che estrae prevalentemente dai suoi Yamaha a sei corde, non mi convince, si impasta col resto degli strumenti, non è mai ben percepibile, non esprime personalità. Anche in questo disco Myung non fa eccezione, è l’anello debole del supergruppo.

Infine il chitarrista nonché cantante, compositore, produttore ed ingegnere del suono (in pratica: il capogruppo) texano Ty Tabor non è un virtuoso, nel senso che non ha le solite e quasi sempre controproducenti doti pirotecniche e velocistiche del caso, però suona lo stesso da padreterno.

Negli States lo considerano, giustamente, un vero punto di riferimento per il suono e lo stile di chitarra rock anni novanta (grunge, post grunge, nu-metal), sviluppato nel suo gruppo King’s X sin dal loro primo disco del 1988. Tabor è un’enciclopedia vivente di precisione ed efficacia ritmica, di personalità e di gusto, il classico musicista che si ritrova quasi ad ogni concerto molti dei suoi colleghi, magari ben più famosi ed arricchiti di lui, ai suoi piedi con le orecchie ben aperte sul suo amplificatore e gli occhi fissi sulle sue mani, ad assorbire quanto possibile della sua abilità. Lo stile al canto di Tabor è molto più opinabile, molto meno universalmente accettabile del suo enorme talento chitarristico. John Lennon è il suo ben affiorante punto di riferimento, il Lennon psichedelico, stordito e stordente del tardo periodo Beatles (Lucy In The Sky With Diamonds, Dear Prudence, I’Am The Walrus, Because…). Solo che Ty possiede una voce più acuta del povero John, meno completa. Al di là della grande perizia e creatività di Tabor nel sistemarsela in sontuosi e acidi cori, a molti può raffreddare gli entusiasmi proprio per la maniera con cui essa poggia, persa e ipermelodica, su chitarre dallo stratosferico ed oscuro groove hard rock. Io ci ho preso subito le misure e stimo troppo il musicista e le sue canzoni per non trovarla molto bella, ma riconosco che è una questione di gusti.

Questo side project è ben lontano dunque dall’essere un vuoto e sborone esercizio di velocità e stranezze fra tre grandi “manici”. La maggior parte dei dieci pezzi presenti sul dischetto ha il suo bel testo e la sua bella parte vocale, è in azione un grosso compositore e si sente, le jam session ci sono ma non sono preponderanti.

Si può definirlo a questo punto, senza voler fare torto agli altri due, una specie di disco solista di Tabor, in azione col suo tipico stile sia di songwriting che vocale, coadiuvato ed ispirato da una sezione ritmica assai diversa da quella a cui è abituato da tanti anni (molto più “trafficata”, diciamo). Il richiamo ai suoi King’s X è logicamente forte, ma in quel gruppo c’è una voce più importante ed efficace della sua (quella del suo bassista Doug Pinnick) e quindi i conti tornano.     

Il contributo di Rod Morgestein alla qualità dell’album è comunque determinante. Basta in proposito descrivere uno dei tanti momenti in cui questa fenomenale macchina del ritmo dà il suo valore aggiunto: la traccia numero quattro “Nature’s Girl” parte con un riff indemoniato a cui segue la tipica parte cantata post psichedelica di Tabor. Nella sezione strumentale Rod viene lasciato quasi da solo, a tenere il tempo solo sul piatto ride: ebbene, il modo in cui lui picchia semplicemente sul ride è… emozionante, non ho altra definizione. Una benedizione di batterista.

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