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R Recensione

8/10

Yakuza

Of Seismic Consequence

Era solito dire un saggio che, a forza di guardare dentro l’abisso, è l’abisso a volgere lo sguardo dentro di noi. La difficoltà sta nello spiegare l’aforisma a chi, in voragini di isolazionismo pionieristico e per questo ancor più coraggiosamente voluto, sciaborda da tempo. Se lo sono cercati con tenacia ed incrollabile fermezza zen, gli Yakuza, questo dirupo. Per mettere in crisi ogni certezza preconfezionata e sbattezzare le critiche di chi vale sempre il motto “prima o poi si perderanno” c’è stato un pressante ed incontrollabile bisogno di quattro dischi, imperiosamente cavalcati con il massimo delle forze ed ogni briciolo di tensione si possa concentrare in membra pungolate da miasmatici salassi world metal. Sono anni, ormai, che il quartetto di Chicago scrive una storia a sé slegata da proporzioni e contesti puramente terreni. La trascendenza buddista, alla quale peraltro il gruppo di Bruce Lamont ha periodicamente sacrificato la totalità dei perni lirici, delle copertine e buona parte dell’impatto sonoro, si chiude con una circolarità disarmante, tre anni dopo il munifico “Transmutations”.

Così nasce “Of Seismic Consequence”, un lavoro progettato nei minimi particolari ed altrettanto minuziosamente costruito. Lo si è capito: il motore immobile che smuove gli Yakuza a proporre la loro idea di ibridazione, quasi un decennio dopo il fracassone e superfluo esordio “Amount To Nothing”, è destinato ad alienarsi le simpatie di un intero cassettone di colleghi musicisti e assortite generazioni di ascoltatori. Non vi è nessun desiderio spasmodico di piacere, niente da perdere, poco ormai da aggiungere alla lista dei prodigi già dispensati nelle precedenti prove. La conseguenza del terremoto, ed il movimento tellurico in prima persona, si pagano con un totale e definitivo distacco dalle basi metalliche – intese come irrinunciabile decalogo di cliché - ed una proiezione (di non ritorno?) verso sponde forse meno appaganti, sotto un profilo egoisticamente fisico, ma certo assai più intriganti perché ancora poco considerate. Un capovolgimento pressoché annunciato di “Samsara”, datato 2006, dove i filtri psichedelici erano sgretolati dalle ustionanti lesioni delle sei corde.

Non intendiamo dire che la pacificazione, nelle nove canzoni dell’album, sia raggiunta nel modo più completo ed efficace possibile. Da un lato c’è molta strada ancora da fare, come in ogni metamorfosi seria che si rispetti: dall’altro si alzano maestosi sedimenti di rabbia rinnovata, sebbene non fragorosa come un tempo. Non ce n’è più bisogno, a conti fatti: la furia gelida dell’approccio heavy viene incanalata sotto altre forme, plasmata a freddo e trasformata in un selenico risultante dai contorni indefiniti. La naturalezza congenita con cui gli Yakuza approcciano questi tentativi generali di metamorfosi è tale da dedicare appena due striminziti paragrafi al fu metal, numeri comunque gradevoli: prima istanza presentata da “Good Riddance (Knuckle Walkers)”, militare math-core con un basso che sciama ed una chitarra che straripa, risposta affidata alle andature zigzaganti di “The Great War”, post-core preso tra ganasce acide. Le coincidenze le lasciamo ad altri, specialmente quando la variazione più classica sul tema della vecchia “Egocide”, una “Stones And Bones” sorretta da un incedere quasi stoner e stacco jazzato inframmezzato da ripartenze ed accelerazioni, risulta noiosa e priva di mordente, unica falla visibile: segno del tempo che passa, o dei terribili contraccolpi che possono addurre simili affezioni.

Si riparte, perciò, dal blocco centrale del disco: venti minuti di caracollante trance mistica sui marosi di “Be That As It May” e “Farewell To The Flesh”. La prova del nove, si potrebbe supporre, per tutti gli scettici che ancora giudicano accessorio, aldilà di ogni prova tangibile, l’uso pregnante del sax da parte del tatuato leader e cantante. Nel primo brano, segmenti di intenso raccoglimento psichico, appena sfiorati da tablas e delays, si raggrumano in coaguli di eccezionale vitalità che, per impostazione, ricordano i maudlin of the Well: vocalizzi puliti, infinite soluzioni chitarristiche, tortuose e catartiche trame jazz impegnate in un alto confronto con le controparti rock. L’intensità raggiunge livelli astrali con la nuova preghiera tantrica del secondo pezzo, Morphine e Popol Vuh coperti da uno strato di vibrato che penetra nelle ossa e le fa risuonare di rintocchi ascetici. Corpo estraneo a tutto, di ardua collocazione e relativizzazione, gli Yakuza irradiano vigore e linfa vitale da noccioli ieratici, ritmati sino all’estremo (“The Ant People”) ed elefantiache, dissonanti scudisciate in controtempo (“Thinning The Heard”), raggiungendo un apice difficilmente contestabile in una meravigliosa “Testing The Waters” che unisce propulsione epica, elettricità jazzcore e straordinarie gittate death.

Ad una scelta radicale si contrappone un’accettazione radicale. Cambiare pelle diventa ordine non solo per il musicista, ma anche per l’ascoltatore. Infiniti i benefici da ricavare, ed il bello è che siamo praticamente all’inizio.

 

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