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R Recensione

6/10

Mars Volta

The Bedlam In Goliath

Ecco la filiera, in dissolvenza incrociata: c’erano una volta gli At The Drive-In, erano giovani, scanzonati, amavano i Rage Against The Machine, l’hardcore e i ritmi latini, ma il bel gioco, purtroppo, durò poco, due di loro formano i Mars Volta, il brevetto del prog-core sembra l’invenzione del secolo, il nodo gordiano che il nuovo millennio non riesce a sciogliere, eppure non s’accontentano, “Frances The Mute” è un flusso di coscienza ininterrotto che, sotto l’egida del prog, ingloba praticamente ogni influenza affiorata nei due decenni successivi a quest’ultimo, un contenitore di sottotracce che, prese singolarmente e ridotte a 2/3 minuti, avrebbero potuto fare la fortuna di una decina di gruppi diversi, così invece si fa davvero fatica a vederne la fine, non parliamo poi di “Amputechture”, tronfio, imbalsamato, estenuante, una specie di cupio dissolvi alimentato dalla loro adamantina vanità strumentale.

Può anche darsi che la situazione sia grave, ma seria, no di sicuro. Il progetto Mars Volta ormai è una nebulosa convoluta nella galassia del post, un’astronave che si addentra nell’iperspazio della generazione iPod. Le testate che si occupano di musica alternativa non sanno mica più bene quali pesci pigliare: per intanto hanno cominciato a scartabellarli dai servizi di copertina e a trincerarsi dietro effusioni eufemistiche, poi si vedrà. Altra storia invece con la Universal, in quanto a testate pure loro non si possono proprio lamentare, peccato che siano tutte dirette contro un muro: cinque anni fa credevano di avere per le mani i nuovi Red Hot Chili Peppers (Flea e Frusciante, a più riprese, garantivano per loro) ed ora si ritrovano sotto contratto questi King Crimson del barrio che si addobbano come figuranti di Zabriskie Point (capelli cotonati e occhialoni di corno) e sono del tutto incapaci, per giunta, di trattenere la loro incontinente ispirazione.

Se non vi siete ancora accasciati a terra, spossati al solo pensiero, scoprirete che nel maelström di “The Bedlam Of Goliath” (altri settanta e rotti minuti di musica, terzo album monstre in tre anni) galleggiano, incastonate, alcune sorprese (talune vi saranno di sollievo altre meno): atmosfere vocali talmente eteree ed equalizzate da lambire il dream pop (il falsetto di Cedric Bixler diluito in un brodo di giuggiole fra Styx e Alvin and the Chipmunks), sovraincisioni orgiastiche di chitarra e tastiere che subissano il sottobosco sonoro (e il buon lavoro del bassista) fino al limite dello shoegaze, un nuovo batterista (Thomas Pridgen) tanto svelto e tecnico quanto sprovvisto di fantasia e in generale un “wall of sound” diretto quanto basta (per i loro standard) e qualche scrupolo in più nel lasciarsi andare ai loro estatici impro-form (ci sono persino un paio di pezzi da 2’ e 30’’).

In “Aberinkula” e “Metatron” redivive schegge di punk ed emo-core rimbalzano fra prog e noise senza infiggersi nell’uno o nell’altro. “Wax Simulacra” (con finale free jazz) e “Goliath” (riff alla Red Hot/Jane’s Addiction frullato in una marea di digressioni) allineano sequenze di giri solidi e ribassati già mattoni portanti nel crossover dei primi ’90. “Ilyena” è un ballabile disco-funk tempestato di sincopi e poliritmi, “Tourniquet” un’oncia di post rock, “Cavallettas” affetta tempi dispari in staccato, un flauto traverso spunta sotto la massa critica di feedback, wah, droni, delay (e i fervidi assoli di Rodríguez-López che tentano di coniugare Hendrix e Lee Ranaldo); “Agadez” è un hard-blues disfatto da interludi psych-prog d’antan, epici e vagamente caramellosi; “Askerpios” è un post rock fatto di progressioni d’organo, droni e cambi di ritmo, nella prima parte, e un hard rock psichedelico con il suo wah caricaturale, nella seconda. “Ourobouros”, il solito emo-prog sinfonico con variazioni di tono e di tempo (e flanger “parlanti” che nemmeno Peter Frampton usa più) che allietano ma non disorientano, “Soothsayer” è un collage di jazz e space rock (con grace notes di violino) prima del finale in messa cantata, “Conjugal Burns”, un cantilenante power-soul per voci bianche che brucia nel rogo noise-core del pre-finale.

Un album dei Mars Volta, oggigiorno, più che ai sacrifici e alle possessioni dei rituali aztechi (ai quali magari aspirerebbero) assomiglia ad una danza di innocue maschere di gomma di pane nel Dia de los Muertos. Per chi s’accontenta…

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motek 5/10
ThirdEye 2,5/10
luca.r 3,5/10
Dengler 5,5/10

C Commenti

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Cas alle 21:59 del 31 gennaio 2008 ha scritto:

Ho ascoltato De Loused In The Comatorium e Frances The Mute...ed è stata dura, non so se ascolterò anche questo...Però i nostri Mars Volta, nonostante la tua giusta visione critica, hanno una larga, o perlomeno convinta, schiera di fedeli. Pure a scaruffi piacciono! A volte non si sa più cosa pensare

Marco_Biasio (ha votato 5 questo disco) alle 14:36 del primo febbraio 2008 ha scritto:

Bleah!

Recensione che rispecchia in pieno ciò che penso io, come al solito, pur avendo l'indulgenza di non infierire troppo )) Gruppo spocchioso, invadente, irritante. Tanta tecnica strumentale, zero sostanza. Molta furbizia nel riproporre la lezione dei maestri senza poi aggiungere niente di personale. "Amputechture" era in effetti parecchio tronfio e galeotto, ma qualche pezzo in mezzo non mi dispiaceva. Questo nuovo qui è semplicemente orribile: una serie di brutte caricature color seppia dei bei tempi che furono. Caro Rodriguez, la musica è un'altra cosa: e cambia occhiali! )

Alessandro Pascale (ha votato 5 questo disco) alle 10:38 del 2 febbraio 2008 ha scritto:

solita storia

il primo disco era più equilibrato e mi piaceva. Poi è cominciato il delirio. Sono più o meno concorde col coacci nel vedere i dischi successivi pomposi, troppo pieni (e troppo lunghi of course), con troppa carne al fuoco. Anche questo disco alla fine ha ottimi spunti, alcune belle canzoni, un pezzo mi sembrava pure di sentire i rage against the machine, però caspita non è possibile fare un disco di settanta minuti e passa in cui in ogni minuto è condensata una quantità industriale di musica. Per me questo prog-core è un disastro.

Wasted Jack alle 3:21 del 6 febbraio 2008 ha scritto:

la recensione è davvero ben scritta e aplesa l'ottima preparazione di Simone, ma il giudizio non lo condivido più di tanto: i mars volta a mio parere si sono ripresi dopo il tonfo di Amputechture con questo ultimo lavoro. In certi momenti si lasciano andare a virtuosismi effettivamente eccessivi, ma in altri casi partoriscono ottimi momenti di musica, piuttosto difficile sentire altrove una tale capacità tecnica. Non penso minimamente cje il loro sia uno stile che ripropone senza innovazione alcuna le lezioni dei grandi maestri del passato.

Non un capolavoro, ma un album godibile.

Norvegese (ha votato 5 questo disco) alle 22:59 del 4 febbraio 2011 ha scritto:

degli album post "De-Loused" forse è il meno peggio..ci sono buone canzoni (l'opener, Goliath) ma come sempre appare tutto poco a fuoco e affogato in un mare di inconcludenza