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R Recensione

5,5/10

Gogol Bordello

Trans-Continental Hustle

Chi ha adorato “Gypsy Punks: Underdog World Strike” nel 2005 non può non odiare Rick Rubin. Per il nuovo lavoro i Gogol Bordello si sono affidati al celebre produttore statunitense, rinomato per il lancio di numerosi artisti di conclamato spessore nel firmamento danaroso della musica che conta, oltre che per aver risollevato le sorti di altri musicisti di meno conclamato spessore, ridando lustro a vecchi fasti ormai derelitti.

Non intendo far nomi, peraltro di pubblico dominio, ma è da questa premessa ineludibile che devo per forza di cose partire per analizzare lucidamente il disco in questione. I Gogol Bordello, per la verità, non sono artisti da lanciare né star decadute da risollevare. Lo zoccolo duro dei loro fans, abituali o occasionali che siano, è entusiasta e sincero a prescindere, nonché numerosissimo e assolutamente trasversale. Ricordo un concerto sold out a Firenze durante il tour di “Super Taranta!”, in cui mi colpì l’eterogeneità del pubblico accorso: punk variopinti, fricchettoni sorridenti, snobbetti in maniche di camicia, modelle incipriate, rapper in canottiera, giamaicani muscolosi, e gente anonima come il sottoscritto. Tutti accomunati da una danza spicciola ma contagiosa e dalla gioia di un’emozione variopinta.

Ora, il caro Rick Rubin asfalta ogni sfaccettatura sotto una coltre (d’accordo, non troppo spessa) di catrame che poi provvede a verniciare coi colori originari, esattamente dove Steve Albini, in “Gypsy Punks”, scavava nuove buche accentuando i dislivelli.

Eugene Hütz, ucraino di nascita ma nomade nella vita, è l’istrionico leader di questo collettivo multietnico-multiculturale, di cui fanno parte musicisti russi, etiopi, ecuadoriani, americani, scozzesi, israeliani, e la sua musica è una patchanka che nasce punk per fondersi nei suoni balcanici dei violini e delle fisarmoniche, facendosi corteggiare da reggae, ska, tribalismi africani e mantra arabeggianti. Il tutto dissacrato dal suo molesto sguaiato canto, in perenne bilico tra sbornia e postumi della stessa. Potreste aver assistito alle sue prove d’attore nel commovente Ogni cosa è illuminata, tratto dal romanzo di Safran Foer, e in Sacro e Profano, esordio alla regia di Madonna, con la quale condivide amicizia e chissà cos’altro.

Proprio un medley dal vivo con “La Isla Bonita” di miss Ciccone, con la quale spesso e volentieri i GB hanno diviso il palco, portò al successo “Pala Tute”, pezzo che apre il disco, ma che poco conserva del suo incedere triviale. La cura Rubin ha ridimensionato anche brani potenzialmente fragorosi come “My Companjera, “Last One Goes The Hope”, “Uma Menina Uma Cigana”, in cui fa capolino un sirtaki e che avrebbe avuto dignità di classico se la festa di paese fosse esplosa nei magistrali impetuosi finali dei tempi andati. Invece, un’emulazione sbiadita di vecchi fasti. Passando dalla ninna nanna tzigana di “Sun Is On My Side” all’estetica sghemba di “When Universes Collide”, ci si imbatte finalmente nella riuscita “Immigraniada (We Comin’ Rougher)”, che pare essere la fottuta convergenza di tutto lo spirito buskers che, mimetizzato da Rubin nel buio dei solchi, se ne affranca esplodendo in un’orgia di voci e colori, pause e ritmi sincopati.

Preferisco la pazzia percepita nel protrarsi di una stonatura a quella sbandierata nel testo di “To Rise Above”, mi aspetto sommosse nei fatti, non nelle intenzioni (“Raise The Knowledge”), godo più di una bestemmia sputata in italiano da un povero emigrante (“Santa Marinella” in “Gypsy Punks”) che del tribalismo sterile di “Rebellious Love”.

Per fortuna il trittico finale aggiusta il tiro, l’alito torna terribilmente vinoso in “In The Meantime In Pernambuco” e nell’inno senza frontiere di “Break The Spell” (“You love our music, but you hate our guts”) fino alla title-track finale, manifesto di contaminazione culturale e irriverenza antirazzista (“and may the sound of our contaminated beat/sweep all the Nazi purists off their feet”).

Questo Gogol Bordello feat. Rick Rubin è, per concludere, un disco riuscito per metà (la metà a nome GB). A quanto pare l’appiattimento è l’unico metodo per attirare le masse, se così dev’essere fanculo le masse, e fanculo il metodo. Chi ha voglia di esaltarsi col popolano punk zingaro dei Gogol Bordello cerchi nel miracolo di colore giallo a nome “Gypsy Punks”, dove, con le strade piene di buche e i tombini scoperchiati, il viaggio nel cassone vi ecciterà più di mille coccole in business class.

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Voto degli utenti: 5,3/10 in media su 5 voti.
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C Commenti

Ci sono 2 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
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Marco_Biasio (ha votato 6 questo disco) alle 22:28 del 6 luglio 2010 ha scritto:

Sì, hai certamente ragione, Daniele. Non rimane (quasi) più nulla dell'allegria e dell'alcolismo di "Gypsy Punk" (su questo i festoni di "Pala Tute" la dicono lunga: allegria paesana ma non spontanea), ma ormai la band è così addentro ai meccanismi della grande industria che non me ne preoccuperei più. Piuttosto il disco mi pare superiore a "Super Taranta!", che in molti passaggi era davvero fiacco (e salvato in corner solo da una grande title-track) ed aperto ad un suono più morbido e globalizzante, che incorpora più ritmi in levare ed ascendenze bossa. Non sempre quel che succede è positivo, ma non schiferei tutto, anzi... Mi piacciono "Rebellious Love" e "Immigraniada" che hanno un po' il piglio del passato, "Sun Is On My Side" che è al di là di tutto una bella canzone, e "Last One Goes The Hope". Il resto credo sia dispensabile, anche se un sentire gradevole ("Break The Spell"), solo talvolta davvero stucchevole ("When Universe Collide"). Peccato che questa medietà stia facendo loro perdere quella verve che sarebbe bestemmia lasciarsi sfuggire, almeno una volta nella vita, dal vivo. Fosse anche per le percussioniste fighe che si buttano in mezzo al pubblico.

bargeld, autore, alle 23:12 del 6 luglio 2010 ha scritto:

Beh si, dal vivo, privi di orpelli, sudati e caciaroni sono e credo saranno sempre un gran sentire. Ma poi concordo con te che di pezzi buoni ce ne sono, il mio interrogativo è quanto sarebbero stati migliori con una produzione meno invasiva? Rispetto a Super Taranta, uhm, ci devo pensare, ma credo di preferirlo a questo, ma come dici tu sarà pure merito del pezzo finale omonimo. Qui dentro roba così buona non ce n'è.