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R Recensione

7/10

Melvins

Hold It In

Melvins 1983 era un progetto senza arte né parte? Nessun problema: Mike Dillard se ne torna a rimestare nel sottobosco di cover band e lavoretti dove ha sguazzato negli ultimi trent’anni, Dale Crover ripone il basso con un sospiro di sollievo – si sarà anche stancato di far finta di suonarlo, si presume – e si riprende il posto che gli spetta dietro alle pelli. Wait a minute… manca un bassista? Novoselić si è intrippato con la politica ed ha pure piantato i Flipper, il cafone croato. Mike Watt non ha bisogno del sessantesimo progetto. Ma forse… Forse a Jeff Pinkus non fregherà niente di tenere gli Honky sulle spine, e se gliene frega si arrangia, oppure se li porta dietro, un opener in più o in meno, cosa volete che cambi. Ah, sì! È tempo di tornare a scrivere un disco cicciotto come un tempo, aggiunge King Buzzo, e per farlo mi serve una seconda chitarra. Pinkus, quando suonavi nei Butthole Surfers, un sacco di tempo fa… Sì, ci sei pure ritornato, è vero. Quindi te lo ricorderai, Paul Leary. L-E-A-R-Y, sordo del cazzo. Ci starebbe? Ci sta? Bella lì.

Gli sfinteri si saranno pure dilatati (da qui il cipiglio caparbio: tienila dentro!), ma la strana miscellanea Melvins + Butthole Surfers per ora rilascia solo ciò che deve: un grande album. Il ventiquattresimo per gli sbarellati di Montesano, intervallato dalla raccolta acustica dell’Osborne solista uscita nella tarda primavera di quest’anno (“This Machine Kills Artists”), a suggello di un paio d’anni di intensissima attività e, ahinoi, di cedimento strutturale. Come un panzer, invece, “Hold It In” torna a non fare sconti, di nessun tipo. Il vigoroso contrattacco si spiega su tre versanti, strettamente connessi tra loro: un poderoso e rinnovato muro chitarristico (si tratta del primo disco con due chitarre in formazione in contemporanea), l’incupimento della pasta hard rock che – dal 2006, anno di “(A) Senile Animal”, in avanti – costituisce la matrice principale dei riff e, soprattutto, la cessione di un quarto di scaletta all’inventiva distorta di Leary. Le sue composizioni altro non sono che l’ammodernamento del ludico e corrosivo sarcasmo (Zoe Camp di Pitchfork l’ha efficacemente descritto come “their untainted devotion to chaos, rooted in a perverse Peter Pan complex”) che da sempre permea il suono e l’estetica di King Buzzo e compagni: altrimenti detto, la smodata presa per il culo. “You Can Make Me Wait” è esilarante: AOR lucido di twang, come neanche i migliori Boston, e un cantato reso irriconoscibile dal vocoder. “Eyes On You” è un boogie ripetitivo e agghindato con surreali falsetti, mentre “I Get Along (Hollow Moon)” torna ancora più indietro, ad un Buddy Holly ipervitaminizzato e stroncato da effettacci.

Tra un divertissement e l’altro, poi, il vero “Hold It In”. Ossia: un’altra infilzata di divertissement. Quale la differenza, allora, con l’indolenza di “Tres Cabrones”, per citare l’episodio cronologicamente più vicino? Risposta scontata: il contenuto o, più correttamente, la sua presenza. “Bride Of Crankenstein”, con le sue rasoiate sabbathiane, fa già il vuoto attorno a sé, sposando una perfetta alternanza ritmica e solistica ad un cantato compatto e centratissimo. Il tiro viene poi migliorato e ristretto con le successive “Sesame Street Meet” (sludge commestibile attraversato da allucinazioni psichedeliche), “Onions Make The Milk Taste Bad” (il classico pezzo-Melvins, con rallentamento centrale e finale nuovamente contratto: tutti i vantaggi di sfoderare due chitarre…) e, sugli scudi, i sette minuti e passa di “The Bunk Up”, una nuova “Suicide In Progress” che procede per scaglioni strumentali in successione fitta ed inesorabile. Il luna park di casa Osborne mena un colpo al cerchio ed un altro alla botte, permettendosi di sfaldare le trame del grottesco ibrido di “Brass Cupcake” (come trascrivere le paure ancestrali di Ric Ocasek di fronte a IT) dall’hardcore tutto basso e sfilacciature di “Nine Yards”, dal drone demenziale di “Barcelonian Horseshoe Pit” e dallo stoner arioso di “Piss Pisstoferson”, un attimo prima che l’ottovolante vada in cortocircuito e finisca nelle grinfie di una “House Of Gasoline” (12.11) che è per un terzo pregevole assalto sonico, per due terzi jam indefinita su frequenze impastate.

Difetto di autostima e creatività? Parlatene con King Buzzo: avrà una risposta anche per voi.

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zagor alle 20:32 del 29 ottobre 2014 ha scritto:

King Buzzo santo subito!