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R Recensione

6,5/10

Nibiru

Padmalotus

Italy goes stoner, part III

So goes life. I Nibiru, partiti dal nulla (termine polisemico sempre piuttosto difficile, quando si ha a che fare con vecchie volpi del black metal…), ce l’hanno fatta: “Padmalotus”, loro terzo disco in tre anni e primo ad uscire per Argonauta Records, ha garantito loro la partecipazione al prossimo Roadburn, che si svolgerà, a Tilburg, dal 14 al 17 aprile 2016. Il traguardo raggiunto è piuttosto notevole, a considerare l’esiguo numero di formazioni tricolori ammesse ai grandi rituali psichedelici in terra olandese (Ufomammut, Zu, i Goblin di Claudio Simonetti) e, soprattutto, a ragionare attorno al pedigree dei torinesi (da poco quartetto, con lo spostamento di Siatris alla chitarra ritmica e l’approdo di L. C. Chertan alla batteria). A non conoscere personalmente i membri del gruppo l’impresa, anche se per molti suonerà strano, è alquanto impegnativa. Si ha una vaga idea di chi siano, da dove vengano, dove registrino (una sala prove personale ridenominata Aadya’s Temple: alla vostra immaginazione completare il quadretto delle suggestioni), quali siano i loro trascorsi discografici e quali i loro riferimenti culturologici ed iconografici: per il resto è come se, col crescere della popolarità e dell’hype, all’accumularsi delle prove discografiche, la nebbia sulle loro persone s’infittisca, anziché diradarsi. In due parole: tutto ciò che sappiamo sui corregionali Ufomammut e Tons è quello che manca al terzo vertice del triangolo, il più oscuro, pericoloso, serioso.

Padmalotus” riassume, in appena quattro tracce, l’inafferrabile flusso di coscienza di “Netrayoni”, il doppio più libero e sfiancante degli ultimi anni di vibrazioni doom. Al che si fa strada la domanda: possibile che i Nibiru abbiano scritto un disco di canzoni? A sentire loro, nonostante una tracklist imponente (“Krim”, 12:08, “Ashmadaeva”, 12:48, “Trikona”, 13:05, “Khem”, 28:32), sembrerebbe di sì: per quanto ci riguarda, la pur oggettiva, maggiore strutturazione del songwriting – una doppia chitarra, un doppio registro vocale, l’arricchimento del parco strumenti – è una fune non abbastanza resistente per salvare il disco dal baratro dell’anarchia, dell’improvvisazione epidermica, dello stordimento spirituale. Non che sia un male, intendiamoci: ve li vedete questi sinistri signori con penna e bloc notes in mano, a dirigere il traffico tra strofe, bridge, chorus? Più interessante è la questione stoner, inequivocabilmente posta dal titolo: pur ispessito e non meno violento che in passato, abbiamo qui di fronte un suono capace di aperture improvvise, inaspettate. Dei quattro, è “Ashmadaeva” il brano simbolo di quest’evoluzione: la cavalcata black/stoner dei primi minuti, spezzata da geremiadi in enochiano, feedback trattati ed immancabili sample razziati da misconosciute pellicole di genere italiane, riprende quota attorno ai nove minuti, ma in forma del tutto rinnovata. L’impressione restituita è quella di chi arriva a sentire dei Motörhead geneticamente modificati da un’orgia di interferenze ed ultrasuoni (le chitarre, lontane dal nitore d’apertura, sembrano ora ordigni).

Tenere testa ai Nibiru, aldilà dell’orgoglio personale, è una sfida avvincente che può regalare parecchie soddisfazioni. Tanto gentili, oneste ed agghiaccianti paiono, allora, quelle percussioni etniche confuse nella gelida foschia psych-sludge di “Krim”, o le bestiali accelerazioni della seconda metà di “Khem” (i Nargaroth strafatti di ketamina e lanciati di gran carriera). Si riesce, persino, a maturare un giudizio compiuto sui difetti dell’opera: brutti, ad esempio, e assolutamente fuori luogo gli ultimi cinque minuti della stessa “Khem”, una tanz debil trance (recente e costante ascolto di Siatris, pare) per sciamani in estasi che, per quanto ci riguarda, è solamente kitsch posticcio. Ma ha davvero senso parlare di buon gusto estetico, in presenza di un’opera come “Padmalotus”?

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