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R Recensione

5/10

Nibiru

Qaal Babalon

Tra una manciata di giorni Argonauta Records ristamperà su cd “Netrayoni”, il colossale doppio album con il quale i Nibiru, nel 2014, si imposero all’attenzione della stampa specializzata di settore: un pozzo degli orrori senza fondo, un flusso di coscienza sludge-doom allo stato terminale, una scarica di bassissime frequenze autofaghe, l’apocalisse della distorsione (…e nessuno si farà del male). Arriva al momento giusto, questa riedizione, a salvare messianicamente capra e cavoli: celebrando un’opera ostica ma affascinante (affascinante perché ostica?) e, al contempo, esaltando le pieghe più torbide ed esotiche di una proposta nichilista e reazionaria al massimo livello. Molte volte la band di Torino ha nel frattempo mutato pelle, dalla pubblicazione di “Padmalotus” (2015) valevole del palco del Roadburn, passando prima a quartetto e contraendosi poi nuovamente a power trio dopo l’illustre defezione del co-leader Siatris. Infine, l’ennesimo capitolo luciferino del mostruoso almanacco, “Qaal Babalon” (2017), che certifica quanto già si poteva sospettare: a non cambiare è la sostanza profonda. Quello dei Nibiru è un eterno moto rettilineo uniforme.

Da una prospettiva così radicale ed incompromissibile sulla propria musica conseguono due strategie di sopravvivenza, in mutua esclusione: diluire considerevolmente il ritmo della produzione studio (esempio classico, per quanto portato all’estremo, è quello dei Thergothon), oppure introdurre gradualmente elementi di novità nella propria formula. I Nibiru ignorano entrambe le soluzioni e tirano dritti per la loro strada, confezionando l’ennesimo, monocorde mastodonte di interminabili suite (o simulacri di suite?). Parlare di passi avanti o indietro è persino fuorviante: Ardat e compagni, semplicemente, non si muovono. Certe volte suonano più ruvidi e selvatici, inscenando spaventose pantomime azioniste (in “Oroch”, ad esempio, il lucido delirio della seconda parte è in italiano) o spingendo sul pedale del black-noise (“Faboan”): altrove scelgono la strada dello sludge che più sludge non si potrebbe (ma il testo di “Bahal Gah”, o quello che si riesce a cogliere tra gli strepiti bestiali, è di un’ingenuità quasi parodistica); solo sporadicamente si giocano la carta dell’acid psych, come nello scorticante mantra heavy della conclusiva “Oxex” (di gran lunga la migliore e la più evocativa). Eppure è davvero tutto qui: i Nibiru che rifanno sé stessi, un disco così prevedibile da essere immaginato – passaggio dopo passaggio – prima ancora di essere effettivamente ascoltato.

Era la seduzione dell’ignoto, appena qualche anno fa, ad attrarre magneticamente l’ascoltatore alla galassia dei Nibiru. Oggi, quelle vestigia in rovina sono ossequiate in uno stanco rituale che mostra la corda in più punti.

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