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R Recensione

6/10

A Storm Of Light

As The Valley Of Death Becomes Us, Our Silver Memories Fade

Josh Graham e Hans Jonas. Non è consolante imperniare tutta l’attività di un gruppo sulle variazioni al tema sciagura/devastazione/castigo imminente, specie se poi la musica non distoglie granché l’attenzione dal messaggio apocalittico. A Storm Of Light è un progetto nato proprio da tali presupposti, e che su tali presupposti fonda l’intero suo senso d’esistere: lo animano, sin dai primi vagiti, figliol prodighi degenere del primo post metal, cariatidi dell’oscurità e lugubri profeti delle calamità dark wave. Dal primo capitolo, un esordio balbettante interamente eretto sugli scarti monolitici dello sludge ultrafisico, al successore, che dimezzava la pesantezza in virtù di una colorita e più ampia variegatura strumentale, si era scorto in effetti un filo di continuità, una spia d’allarme nei confronti dei vicoli ciechi a cui aveva portato, non per sua colpa, l’originario tronco d’ispirazione. Una progressiva semplificazione, un’apertura sottesa alla melodia, l’euristica della paura tinteggiata tuttavia di speranza: il cerchio si chiude (definitivamente?) con il gradino terzo della scala, “As The Valley Of Death Becomes Us, Our Silver Memories Fade”, il punto in cui più di tutti il passato radicato e la recente svolta rock si amalgamano e gettano un ponte verso il futuro.

L’imperativo ecologico di Graham si dirige, dopo il mondo della vita sottomarina e l’industrializzazione dissennata, alla brama di potere economico e militare che da sempre attanaglia l’elite governativa dominante: dirette conseguenze sono la morte, il trapasso, la guerra, la rovina. Un pastone bello che indigeribile, l’ideale sceneggiatura per una controparte sonora altrettanto tetra e lacerante. Ed invece, ecco il colpo che non ti aspetti. Il rilancio inscenato su questi solchi è la definitiva schiusa verso un universo melico decisamente meno elitario e vecchieggiante: le canzoni non nascono e muoiono più solo in funzione del supporto ritmico centrale, soffrendo di personalità e sprint sulla lunga distanza, ma si ammantano di un’aura mistica, straordinariamente comunicativa rispetto ai passi di contemporanea memoria, che le inquadra nell’ottica di un vero concept in forma unitaria, non tassellata. “Missing” e “Collapse” sono i primi e compiuti risultati della trasformazione in atto: del post-core rimane solo l’estetica ritmica, stritolante e cadenzata, di Vincent Signorelli – opportunamente richiamato all’ovile, dopo una temporanea uscita dalla line up –, a tratti persino inadatta al nuovo contesto, mentre un volteggiare di chitarre sature e di torrenziali cannonate hard rock (sul primo pezzo interviene Kim Thayil dei Soundgarden) si modella su implacabili muri doom, attraversati da crepe di sgraziata e melanconica elettricità.

Ma la foschia, certo, è pur sempre in agguato. L’argomento, a sprazzi, è sentito così di pancia ed interpretato altrettanto visceralmente da regalare momenti di vero e disperato nichilismo: “Destroyer” apre levitante, acustica, per poi chiudere in un vortice esistenzialista che eleva il grido del vocalist ad unico strumento sostenibile; l’ombra di Jarboe, effettivamente manipolatrice dei disturbi ambient, incombe sul ceffone psichedelico di “Death’s Head”. Difficile, forse sgradevole a dirsi, eppure è proprio il feticismo del vetusto a regalare ancora scampoli di reali emozioni, organizzandosi in strutture non originali (impossibile esserlo oggi, con coordinate del genere) ma sufficientemente solide. Al rinnovamento melodico, infatti, non sempre corrisponde un riassetto dello stile tipicamente A Storm Of Light, con la sgradevole sensazione di ritorno di assistere alla dissociazione in diretta delle due anime del complesso: “Silver” parte bene, si impantana in una grattugia stoner senza pretese e cerca di salvarsi, in zona Cesarini, via Battle Of Mice, esempio eclatante ben presto bissato dalla modesta “Black Wolves” e dal songwriting poco incisivo della conclusiva “Wasteland”, classica suite conclusiva di raccordo che scompare, tuttavia, al solo confronto ipotetico con una “Omega”.

Finisse davvero in questa maniera sarebbe l’eclissarsi di una piccola stellina spersa nell’oceano di galassie simili. L’appello a Graham è cercare di fornirle abbastanza carburante da farla detonare come superba supernova.

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