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R Recensione

7/10

Prehistoric Pigs

Everything Is Good

Italy goes stoner, part II

Due, come i full length scritti e registrati dai Prehistoric Pigs di Mortegliano, microscopica provincia di Udine. Due (e mezzo: turbolenza non prevista), come gli anni che separano “Everything Is Good” dall’esordio, “Wormhole Generator”. Due, come la posizione dell’antitesi hegeliana: inquieta, imperfetta, bellicosa, corrucciata. Il due vada, allora, ai fuoriclasse del lotto: ché se tutto è buono, come in un maiale, nulla si butta e tutto si riutilizza. Materica e casareccia, ai limiti della gratuita ruvidità, la metafora: difficile, all’ascolto, sintetizzarne una anche solo vagamente più elegante. Con la sophistication – da intendersi solo ed esclusivamente come deleterio scambio dell’orpello per la sostanza, ricerca del vestito da far aderire ad un corpo morto: il disco, secondo il terzo comma del pentalogo fornito nell’articolo sui Narrenschiff, a livello sonoro sfiora la perfezione –, con la sophistication, dicevamo, i Prehistoric Pigs, neandertaliani da titolazione, fanno qualcosa di molto simile a quello che avrebbe tanto desiderato fare il Senatùr con la bandiera italiana: e meno male. Come dalla fucina di Efesto, sorge un magnifico e terribile sole nero.

La saggezza popolare non necessita di ulteriori chiose: è nei dettagli che il diavolo nasconde la sua coda. Chiunque ami senza riserva alcuna “…And The Circus Leaves Town”, come il sottoscritto, non farà troppa fatica a risentire “Thee Ol’ Boozeroony”, con le dovute correzioni e con un più ricco interplay strumentale, in “Everything Is Good I”. Cercate e troverete: basta lasciar scorrere qualche superflua, acida sezione di connessione perché il fuzz faccia sentire tutto il suo peso, riallineando la struttura del brano a mo’ di ipertangibile panzer doom (dal fade out emergerà, una quarantina di minuti dopo, “Everything Is Good II”, mortifera cavalcata heavy-psych dal chitarrismo progressivo). “Red Fields” sfrutta un trucco, se solo ci soffermiamo a pensarci, vecchio quanto il mondo: una sinuosa acustica tex mex traccia la serpentina melodica portante, prima di finire disintegrata dai distorsori. La coda, ancora una volta, svolta bruscamente e sorprende: una pila di fraseggi tooliani suonati a velocità crescente comincia a degenerare in puro noise metallico, finché non rimangono le sole, implacabili frequenze basse. Non si è ancora sentito il meglio: a lasciare senza fiato sono “Universally Droning”, un unico giro sludge in 6/8 ripetuto ad libitum con scansioni, accentazioni e distorsioni differenti (una manata in pieno volto: chissà che carnaio, dal vivo) e una millimetrica “Zug”, i riff dei Kyuss (periodo, questa volta, “Welcome To The Sky Valley”) incellophanati dagli Harvey Milk.

Benché qualche curioso esperimento possa dirsi riuscito (il violoncello di Maria Vittoria Pivetta a proporre inediti spazi ambientali su una “Hypnodope” del tutto monolitica, à la Sons Of Otis), vi sono almeno un paio di episodi di caratura minore per cui, nell’economia complessiva, siamo costretti a rimodulare gli entusiasmi: del tutto superfluo l’esagerato solipsismo in wah di “Shut Up, It's Raining Yolks” (gli Earthless, argh!) e un po’ noiosa la tiritera psichedelica di “When The Trip Ends”, unico scorcio in cui i valvolari non siano tesi al massimo della loro potenza. Il che conferma quali siano l’autentico dono e la reale prerogativa dei Prehistoric Pigs: prenderne uno per annientarne cento.

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