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7/10

Quest For Fire

Quest For Fire

Un po’ come quei loghi fortemente onomatopeici, che in un suono racchiudono uno stato d’essere, Quest For Fire è un monicker che, bontà loro, sprigiona rock solo a vedersi. Tanto più se, per rimarcare la questione, l’omonimo lavoro viene inciso per una piccola etichetta nominata Tee Pee, ovvero: una sberla allo stereotipo, e subito giù con la borsa dell’acqua (calda). Il fuoco quivi richiesto non è, però, quello scavezzacollo e metallico dell’omonimo brano degli Iron Maiden, bensì quello del sole desertico che frigge le pietre sotto una cappa di calore, quello delle improvvise, distorte vampate allucinogene, quello che lambiva i margini di una Stratocaster in un lontano Monterey Pop Festival. La classica ricetta per il classico svolgimento del più classico dei classici stoner, obietterete, non avendo, d’altro canto, tutti i torti. E allora? Semplice: nonostante l’usura, per l’avventatezza con la quale questa musica viene sciorinata da chicchessia in lungo ed in largo, i dischi di classe si riconoscono, ancora, a vista d’occhio, per quel non so che irraggiungibile dai semplici mestieranti.  

Se vi può continuare ad interessare, leggerete inoltre che i sei pezzi di “Quest For Fire” non sono solo torbidi ripescaggi nello psych più ciancicato ad uso e consumo del narcotraffico sudamericano ma, anzi, riscoprono il gusto del riff solido, diretto, pentatonico, granitico ed avvolgente, senza nascondersi solo dietro a nuvole interstellari di effetti, riverberi, feedback ed esoterici ninnoli di tal fatta. Vi sono, come d’obbligo, anche quelli, ma si apprezza quando la fisicità ha la meglio sull’indeterminatezza: “Bison Eyes” è, senza remore, una “Freakshow” dei Colour Haze meno secca, più satura e riempita da gonfiabili vettori wah wah, maltrattando blues e garage in pari once. Quando, infine, arriva il momento del caracollare stonato in percentuale piena e tonda, la profondità impressa dal galoppare strumentale e della lontananza vocale – dagli con quel fruscio ovattato… – immerge in una riarsa dimensione, come camminare lungo canyon popolati da coyote ed agitati da continue tormente di sabbia (sentite un po’ gli assoli in “Strange Waves”, davvero molto evocativi).  

Il senso di familiarità, di una home sweet home difficilmente smontabile, il sapere che non ci si muoverà molto da quelle coordinate, se non per impercettibili variazioni opinabili, quando non addirittura trascurabili (il languido tramestio di “You Are Always Loved”), nonché la ridotta durata dell’insieme, garantisce un ottimo ricambio per gli appassionati del genere, nonché uno specifico tasso qualitativo discretamente elevato per ogni singolo episodio, fortemente coeso con i suoi compagni. Inutile aggiungere, come corollario, che non sarà certo questo il lavoro della rivelazione per chi fatica ad approcciarsi con certe scie, sia nell’alternanza di stacchi doom e gradevoli parentesi acustiche (il muro di chitarre in “I've Been Trying To Leave”) che in avanzate che arrancano, di volta in volta, per il peso dei watt (gli stantuffi di “Next To The Fire”) o per precise valutazioni stilistiche, code lisergiche squisitamente kyussiane splendenti di luce propria (“The Hawk That Hunts The Walking”, vaporosa e cadenzata alla stregua delle migliori stagioni). Forse è proprio l’aspetto vocale, quello da rivedere, bucolico e trasognato ma incapace di evoluzione, anche su breve termine. Resta, però, la fascinazione per un immaginario che – giustamente – è duro a venir meno.

Quid faciatis? In attesa del successore, già in registrazione, se l’idea di venire coccolati da tre quarti d’ora di flusso psichedelico non vi dispiace, buttatevi a colpo sicuro. La copertina è già un ottimo biglietto da visita.

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varlem 7/10

C Commenti

Ci sono 2 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
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Ivor the engine driver alle 18:16 del 28 ottobre 2009 ha scritto:

non ho ancora capito se mi piace o no, anche perchè la copia che ho era senza titoli delle tracce, che rabbia!!

varlem (ha votato 7 questo disco) alle 22:17 del 28 dicembre 2011 ha scritto:

.."i dischi di classe si riconoscono, ancora, a vista d'occhio", o meglio a udito, "riscoprono il gusto del riff solido, diretto (..) granitico ed avvolgente, senza nascondersi dietro a nuvole (..) di effetti, riverberi".. Meglio di così!. Strange wave quasi un inno.