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R Recensione

7/10

The Forty Moostachy

Three Rooms, Some Songs, The Show And A Suitcase Full Of Bones

What can I do now?”, ulula alla luna Luca Toniolo nell’arrembante assalto stoner iniziale di “Dead Man In The Bathroom”. Come tutte le coincidenze, anche questa lo è un po’ troppo per essere casuale. I Forty Moostachy, trio nato a Vicenza ma spiritualmente espatriato a Palm Beach, giocano a fare gli allievi che, pur di accaparrarsi le simpatie dei docenti, dardeggiano qui e lì, senza nemmeno darlo a nascondere, molti dei loro sunti ideologici. Senza provare a scalzarli dalla cattedra, ma accontentandosi di guardarli più da vicino: losco affaire per il quale il Ministero dell’Istruzione stanzierebbe, as usual sprecandolo, pure qualche milioncino di euro. Noi ricacceremo il portafoglio in tasca, riappenderemo la cornetta di un telefono già col fiuto dell’investigatore privato e ci limiteremo a dire che, al contrario di quanto sembrerebbe, Josh Homme probabilmente non sa della protesta No Dal Molin e nemmeno gli interessa granché, anche se i nostri magnagati gli sono, comunque, parecchio affezionati.   Ancora una volta, dunque, fuoco alle pentatoniche (e fiato alle trombe?), per mettere in fila undici brani estremamente curati, ben prodotti ed arrangiati.

Questo, per l’inizio, basterebbe. Non si va oltre il rigido esercizio di stile, ingessato e a tratti anche un po’ stucchevole, dove l’immediatezza e la potenza dei riff portanti crollano a picco per un’estrema, complessiva fragilità del songwriting, incapace di smarcarsi dalle litologie dell’età della pietra – l’impettita cavalcata di “The Man On The Motorcycle”, affossata da falsetti incomprensibili – o dai tizzoni desertici, sollevati a decine da una nuvola di watt, che bruciano nella notte del peyote meno allucinogeno da immemori tempi (“Where Is The Man?”: ma non stava correndo in moto, il poveraccio?). Per come la materia viene plasmata, messa giù, intermediata, bisognerebbe versare l’8 per mille alla Chiesa della Coprolalia Universale, con raccomandazione di diffondere il verbo. Senza paura di ritorsioni (non si sa mai, con cowboy in giro…): una noia mortale e montante. Parlando di un genere come questo, il quadro si fa leggermente più preoccupante.  

Poi, il lampo. Dapprima balena in lontananza, sfumando i suoi contorni in spigolature nere come la pece, i Kyuss andati a lezione dai Sonics (“The Pupil”). Solo successivamente, guardandosi attorno con la più guardinga delle arie e rimossa la polvere da sparo dalle frange in pelle della giacchetta, ci si siede sulle scalcinate verande di un rustico saloon per evocare, mezzi ubriachi, stonatissimi e con un che di gusto macabro – dite che Poe non ascoltasse blues? – i demoni alcolici di “The Man Is Running Fast”, dark country sulla scia di Michael Gira con cori e slide infilate dentro quasi per dispetto. A questo punto, nulla più può andare male, seguendo la scia del solito malvivente che corre, e corre, e corre, solo per sbattere addosso ad un avvinazzato dio del rock’n’roll, piuttosto alterato per aver perso una mano di poker con gli amici defunti e deciso a sfogarsi sul primo malcapitato (i fiumi di chitarre di “The Killer Has Got The Hand”), giusto per poterne celebrare il funerale con il massimo compiacimento consentito (le stortissime, sadiche tastiere di “The Man In The Car”, elegia mortuaria delle più dissacranti e selvagge: d’altro canto c’è Samuel Katarro).

In mezzo? Offensive southern che suonano come un Delta lì lì per straripare, poi si bloccano e gonfiano legioni di riverberi alcolici (“Made Of Bones”), echi di sudicia psichedelia urbana tra Monster Magnet e Hawkwind con armonica in chiusura (“Rouge Foulard”, strumentale e di gran lunga vertice del disco) e, proprio come ciliegina sulla torta, la “Green Machine” di turno, una “Pink Little Toffee” che vi immergerà in un cosmo fatto di sole e tanta erba. Il che non significa, per forza, piombare bruscamente sopra un corteo ambientalista.

Made in Italy, ricordatevelo.

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