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R Recensione

6,5/10

Zippo

After Us

Andrò, esattamente come il disco in analisi, dritto al punto. In occasione dell’uscita di “After Us”, ho ripreso attentamente il precedente lavoro degli abruzzesi Zippo, “Maktub”, accompagnando l’ascolto con la rilettura delle obiezioni che avevo avuto modo di sollevare. L’opinione di allora non ha subito apprezzabili variazioni, per cui le stesse identiche criticità continuano ad emergere, al mio orecchio, a distanza di anni (cinque: non pochi). Si rimanga, per un attimo, sull’argomento. Ho apprezzato enormemente la scelta ponderata di prendersi tutto il tempo possibile per rifondare radicalmente l’identità del progetto e dare vita ad un successore eterodosso, non in linea – non integralmente, perlomeno – con il percorso già espresso. Non si arriva certo, ci si intenda, a clamorosi rivoltolamenti stilistici e ad eclatanti violazioni ontologiche: tuttavia, il carattere profondamente meditato di “After Us”, che rinuncia ad ogni ridondante sovrastruttura in favore di nitore ed essenzialità d’espressione, si rivela in grado di fornire risposte soddisfacenti in più di un’occasione.

Questa nuova sobrietà giova sia alla qualità dei singoli brani (sensibilmente aumentata) che alla riacquistata personalità della formazione (in grado di schivare ogni tentativo di identificazione con Mars Volta o Mastodon). Con basso distorto novantiano e un big muff impastato in contrasto con la voce espressiva di Davide Straccione (“Comatose” si destreggia bene con i tempi dispari), l’impeto animalesco di una “Adrift (Yet Alive)” che esalta il lato più groove di certo stoner metallico, i tormentati jinn di “Summer Black” (da ballata cajun a mattanza post-core in centottanta secondi, archiviati da un riverbero desertico di assoluta classe), il mono-riff kyussiano di “Low Song” e l’ottimo occhieggiamento St. Vitus della title track (rifferama complesso ma non complicato: l’architettura migliore dell’intero disco, probabilmente) si esauriscono i frangenti più brevi dell’album. Discorso a parte per le composizioni “espanse”, dai sei minuti in su. Non ancora del tutto immuni da una prolissità direttamente figlia dello stereotipo (l’iterarsi ieratico di “The Leftovers” non figura tra le migliori pagine del genere), gli Zippo puntano su rovesciamenti progressivi di fronte (come per i sommovimenti acidi che sconvolgono la sospensione zen di “Stage6”, un moderno rifacimento dei fraseggi conclusivi di “Eulogy”) o su agili tensostrutture per accumulo strumentale (se gli OM avessero avuto il John Garcia degli anni migliori alla voce, sarebbe nato un pezzo come “Familiar Roads”): scelta migliore rispetto al recente passato, ma ancora perfettibile.

Bella e gradita sorpresa. Siamo contenti di aggiungere, alla valutazione finale, quel mezzo punto che non avremmo in alcun caso potuto attribuire a “The Road To Knowledge” o “Maktub”.

V Voti

Voto degli utenti: 5/10 in media su 1 voto.
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